Il presidente Joe Biden ha promesso che gli Stati Uniti si ritireranno dall’Afghanistan entro l’11 settembre 2021, data che segnerà la fine dell’intervento militare che ha lanciato la ventennale “guerra globale al terrorismo“.
Alcuni analisti del continente africano esprimono molti dubbi: in Africa questa guerra è ben lontana dalla fine.
Dagli eventi di quell’11 settembre 2001, le minacce terroristiche si sono trasformate in incubi per l’Africa; cellule sono attive da un capo all’altro del Continente. Gruppi, spesso legati ad al-Qaeda o allo Stato Islamico, stanno portando avanti insurrezioni dal Sahel all’Africa orientale passando per la parte occidentale fino a quella meridionale. I gruppi terroristici stanno conducendo operazioni spesso ambiziose e attacchi transfrontalieri.
Ne ho parlato con Bernard Minani, burundese, attualmente in Burkina Faso, laureato in scienze politiche ed insegnante di storia e di formazione ai valori dell’Ubuntu, lo stile di vita che Nelson Mandela (2008) definiva: “il senso profondo dell’essere umani solo attraverso l’umanità degli altri”.
Sono molti a pensare che la situazione del terrorismo in Africa sia un avvertimento e che la guerra globale al terrorismo potrebbe non essere ancora finita.
L’Occidente vede il Medio Oriente come il semenzaio del terrorismo, ma i recenti attacchi in Africa sottolineano che il continente sta diventando il fronte centrale nella lotta in corso tra i gruppi terroristici e i loro nemici, anche se il mondo sposta la sua attenzione su altri problemi ritenuti più “urgenti”.
Secondo il rapporto Onu 2020, il numero delle vittime di attacchi terroristici è quintuplicato in soli tre anni in Burkina Faso, Mali e Niger. In questi tre paesi, nel 2019 sono stati segnalati più di 4 mila morti per questa violenza, in netto aumento rispetto ai 770 morti del 2016.
Lo stesso rapporto rileva che l’obiettivo geografico degli attacchi si è spostato a est, dal Mali al Burkina Faso, e minaccia sempre più gli stati costieri dell’Africa occidentale. Il numero di persone uccise in Burkina Faso è passato da circa 80 nel 2016 a oltre 1.800 nel 2019. Il numero degli sfollati è decuplicato nello stesso periodo, arrivando a circa mezzo milione. Senza contare le oltre 25 mila persone che hanno cercato rifugio fuori dal proprio paese.
Secondo il relatore dell’Onu, gli incessanti attacchi contro obiettivi civili e militari hanno scosso la fiducia dell’opinione pubblica nella capacità di reazione dei paesi della regione. Eppure i governi, gli attori locali, le organizzazioni regionali e la stessa comunità internazionale si sono mobilitati in tutta l’Africa occidentale e nel Sahel per rispondere al terrorismo e sono ben coscienti che devono continuare i loro sforzi in questo senso.
Il rapporto Onu 2020 sottolinea chiaramente che la guerra al terrorismo non sta per finire. L’analista Katherine Zimmerman ritiene anzi che i terroristi dell’area si stanno “esercitando localmente per una jihad globale”. Questo potrebbe significare che hanno un progetto comune, un luogo di comando unico, e che agiscono insieme pur essendo dispersi in vari paesi.
Gli stati africani non hanno ancora piena coscienza che sono tutti vulnerabili davanti al terrorismo. Questo fa sì che ognuno cerchi di contrastare il terrorismo a casa propria, anche se c’è già qualche segno di solidarietà militare fra paesi vicini.
La saggezza africana ricorda sempre che “insieme si puo andare lontano”. Finchè questa saggezza non tornerà ad animare i sistemi politici, economici e militari degli stati africani, sarà sempre difficile mettere la parola fine alla guerra contro il terrorismo; solo una strategia di lotta solidale tra gli stati potrà portare frutti per la pace continentale.
Occorre inoltre lottare contro la causa profonda che alimenta la carenza di solidarietà. Il problema dell’Africa rimangono i sistemi politici esclusivi all’interno degli stessi stati, dove molti cittadini vengono “qualificati” come inferiori da coloro che si ritengono superiori: i governanti. La sofferenza che deriva dal sentimento di vulnerabilità spinge però ad acquisire la qualità di vittima, come afferma il ricercatore francese Philippe Braud in un suo recente articolo su violenza simbolica e malessere d’identità. Così, finché chi domina impone, anche in modo camuffato, la propria volontà, proprio per questo spinge tutti gli altri in una situazione di inferiorità, e questi cercheranno di liberarsi con ogni mezzo, compresa la violenza.
Mentre il dominante politico ed economico giudicherà gli atti dei dominati come atti di terrorismo, i dominati parleranno di “atti liberatori”.
Ecco come si delineano quindi le due facce della strategia di lotta contro il terrorismo: combattere militarmente e insieme, ed evitare ogni forma di esclusione tra i cittadini. Solo un popolo unito, un continente unito, potrano vincere il terrorismo.