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Il diritto e la forza, a 20 anni dal G8 di Genova

di Davide Penna

- Fonte: Città Nuova

Senza memoria condivisa non può esserci giustizia. Il contributo di Raffaele Caruso, avvocato del Genoa Social Forum nel 2001, e Francesco Barabino, giovane penalista, per cercare di riparare una frattura aperta nella società italiana

G8 21.07.2001 GENOVA MAURO SCROBOGNA LAPRESSE

«Io sono arrivato lì credendo nella forza del diritto e sono stato schiacciato dal diritto della forza». Così racconta Raffaele Caruso, avvocato genovese e autore del libro G8 C’ero anche io. Un avvocato tra le barricate di Genova presentato nel capoluogo ligure il 21 luglio – nel giorno del ventennale dall’assalto alla scuola Diaz da parte delle forze dell’ordine – insieme a quello di Francesco Barabino, praticante avvocato, G8 Genova 2001. La notte della democrazia, entrambi pubblicati con la casa Edizioni FOG.

© MAURO SCROBOGNA LAPRESSE

Due libri che osservano da due punti di vista diversi quanto accaduto in quei caldissimi giorni di luglio: quello di Caruso che visse il G8 come legale del Genoa Social Forum; quello di Barabino che ricostruisce – attraverso lo sguardo scientifico del giurista penale – quanto accadde alla Diaz e alla caserma di Bolzaneto alla luce delle testimonianze, dei processi e delle sentenze dei tre gradi di giudizio. Due libri che raccontano il dramma di quei giorni dal punto di vista di due generazioni diverse che, tuttavia, hanno lo stesso interrogativo di fondo: come fare memoria di quanto accadde senza scadere nelle polarizzazioni di questi vent’anni che hanno di fatto impedito un vero dibattito? Questo nella consapevolezza che senza memoria condivisa non può esserci giustizia e senza giustizia la democrazia diventa sempre più fragile.

Caruso racconta di essere entrato nel Genoa Social Forum quasi per caso: cattolico di formazione e da poco avvocato, fu coinvolto, da amici parrocchiani, in quella realtà che a lui parve da subito aperta e trasversale, partecipata da anime diverse accomunate dal tentativo di ripensare un possibile mondo diverso attraverso la lotta alle disuguaglianze e la non accettazione della retorica di un capitalismo inevitabile e trionfante a dieci anni dalla fine della guerra fredda.

Ma quella possibilità e quella apertura, dopo i fatti di Genova, divennero sempre più complicate: dal luglio del 2001 in poi le ferite lasciate da quei giorni sono incancrenite in identità polarizzanti che non lasciano nessuno spazio al dialogo e a chi non si riconosce nelle opposte tifoserie.

Due gli episodi scelti a simbolo e che fanno da sfondo ai libri: la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto. Una scuola e una caserma. Luoghi che dovrebbero c’entrare poco l’uno con l’altro ed essere accomunati solo dal fatto di incarnare, in misura e modalità diversa, dei baluardi della democrazia. In quei giorni, invece, furono il teatro di quella che, com’è noto, Amnesty International ha definito la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda Guerra Mondiale. Secondo gli autori è da questi luoghi che occorre partire per realizzare una vera memoria condivisa di quanto avvenne, dato che quei simboli raccontano del rischio enorme della rottura della tenuta democratica del nostro stare insieme.

Barabino ha letto quanto accaduto dal punto di vista del penalista. In particolare, ha identificato tre fasi cruciali relative al comportamento delle forze dell’ordine: quella di ideazione, dato che le sentenze hanno sottolineato la fredda progettualità di quanto accaduto alla Diaz e a Bolzaneto; quella esecutiva delle violenze e delle umiliazioni; e infine quella del post-G8 con il tentativo di insabbiare o ridimensionare quanto accaduto.

Se il sistema giuridico italiano ha avuto gli anticorpi efficaci per limitare questa ultima fase, si è trovato più in difficoltà nel fronteggiare le prime due, anche se, per quanto riguarda le violenze, un passo avanti significativo è stato fatto con l’introduzione nel 2017 del reato di tortura.

Il problema resta per quanto riguarda l’ideazione: non esiste nessuna figura di reato in grado di indagare e punire una condotta di questo tipo, ovvero una completa distorsione degli strumenti che la democrazia mette a disposizione delle forze dell’ordine per favorire sicurezza, legalità, inviolabilità della persona.

Quanto accaduto vent’anni fa ha bisogno di essere messo al centro di un sano dibattito che tenga conto delle gravissime ferite inferte al sistema democratico, così come della consapevolezza della necessità della presenza delle forze dell’ordine a tutela dello stesso.

Ma – si è chiesto Caruso – qual può essere l’approccio che miri alla giustizia, alla ricerca della verità e al risanamento profondo della democrazia? Una strada può essere il metodo riparativo.

In tale contesto il reato non è visto solo dal punto di vista penale ma soprattutto come la rottura di una relazione che va risanata attraverso un percorso che metta insieme la richiesta di giustizia e la condivisione di dolore delle vittime con chi è stato colpevole, in modo da avviare ad un’autentica responsabilizzazione.

Come è avvenuto per esempio in Sudafrica dopo la fine dell’apertheid in cui fu istituita la commissione per la verità e la riconciliazione.

La democrazia è un bene essenziale al quale nessuno di noi può rinunciare e, allo stesso tempo, è fragile e può essere sospesa, come è accaduto a Genova. E quando la democrazia viene sospesa, non c’è limite alla sopraffazione.

A conclusione Barabino ha dato un’immagine efficace: la nostra società è come una stanza in cui la democrazia è la lampada e in cui se la luce si spegne, tutto può succedere. Per curare le ferite e proteggere la nostra democrazia è quanto mai importante andare oltre la superficie conflittuale e riattingere quei valori fondanti che possono essere terreno comune. Lo impareremo, dopo vent’anni?

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