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Italia > Centenario della nascita (1921-2021)

Pomilio: il volto umano di un grande

di Mario Spinelli

- Fonte: Città Nuova

Lo spessore culturale e personale dell’autore di “Natale 1833″. Un ricordo di prima mano

Quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita di Mario Pomilio: non resisto alla “tentazione” di riandare con mente e tastiera al mio ricordo di questo grande della letteratura italiana del secondo ‘900. Non per narcisismo o per ostentare un’illustre amicizia ormai remota e ahimé non più fruibile quaggiù: se lo scopo fosse questo, cioè la vanità in sostanza, dovrei togliere le virgolette alla parola tentazione!

Se amo riparlare un attimo di Pomilio è solo perché dai miei ricordi emerge una piena conferma del suo valore non solo culturale ma anche, stavolta per me soprattutto, umano, etico e, direi, spirituale, cioè come persona e non solo come autore.

L’ho incontrato la prima volta nella stanza di Alfredo Cattabiani alla redazione de Il Settimanale, il rotocalco culturale della scuderia Rusconi, l’allora popolare editore di Oggi, Gente e altri periodici. Era il 1979 e Cattabiani mi aveva combinato un’intervista con Pomilio che aveva già pubblicato almeno due dei suoi capolavori, La compromissione (1965) e Il quinto evangelio (1975).

Così il caposervizio dei culturali ci lasciò soli nel suo ufficio e i due Mario si trovarono l’uno davanti all’altro, con la scrivania del collega in mezzo. Il più giovane, allora ero sui 33, aveva in mano il suo notes, l’altro, 58enne, le sigarette che si accendeva a ripetizione.

Inoltre, visto che nei ’70 non si era dei cavernicoli in fatto di tecnica (!), vicino all’intervistato era acceso il mio “Philips” a registrare il nostro colloquio. Che dunque partì felicemente, con me ad appuntare, il nastro a girare e Pomilio a raccontarmi la sua vita-e-opera, gli studi in Italia e all’estero, il passaggio dal nativo Abruzzo a Napoli e il suo far scuola d’italiano prima al liceo e poi al Conservatorio partenopeo.

Al che, davanti alla mia sorpresa (“Come, lei insegna?”), lui replicò tranquillo: «Certo, se no come farei?». A campare, voleva dire, a mantenere moglie e 2 figli. Lui, uno scrittore noto e tradotto in tutto il mondo! In quel momento, più che mai, ho pensato come aveva ragione Petronio a scrivere che amor ingenii neminem umquam divitem fecit.

Il fatto è che quell’uomo, mentre parlava, risultava di una verità e autenticità disarmanti. Era semplice, umile, affabile, austero e insieme simpatico e, più che sobrio, la sobrietà fatta persona. Un amico, un mite dall’educazione e l’eleganza innata, che non era raffinatezza ma dignità e misura dovute alla cultura e più ancora all’intelligenza e all’onestà intellettuale.

Inoltre era un uomo dolce, uno di quelli che ti fanno sentire a tuo agio, seri senza essere esigenti, perché in realtà esigono più che da altri da sé stessi. E una persona così se prende in mano la penna non può scrivere opere popolari, per chicchessìa, per il pubblico grosso, o grossier. Ecco perché uno scrittore “difficile” come Pomilio, anche celebre e ammirato, aveva bisogno di insegnare ai ragazzi (“anche con gli urli!”, mi confessava, come un qualsiasi docente delle medie, il vincitore di almeno una decina di premi letterari e accademici italiani e internazionali).

Parlammo di tutto, politica e religione (lui era un cattolico adulto, come lo avrebbe definito Romano Prodi), attualità e costume, psicologia e filosofia. Ma soprattutto di letteratura, e di Pirandello, di cui era studioso e ammiratore, ma che considerava faticoso, solo parzialmente irrealizzato come narratore.

Dopo quel giorno mi misi alle sue costole, non da “stolker della mail” ma per lettera (si usava così nell’era predigitale) e ottenni due collaborazioni per una collana di letteratura spirituale diretta da Pomilio per Rusconi. Curai Il combattimento spirituale di Lorenzo Scupoli e scelsi e tradussi molte lettere di Francesco di Sales alla sua figlia spirituale Francoise Fremyot de Chantal, fondatrice col vescovo di Ginevra delle suore contemplative Visitandine. Gli proposi di intitolarlo Tutto per amore, ma lui da buon devoto nato in provincia scelse Lettere a Chantal, titolo grigio ma impeccabile per due grandi santi.

L’ultima volta incontrai Pomilio al mare, d’estate, a Martinsicuro, dove i ragazzi di Comunione e Liberazione (a metà degli anni ’80 furoreggiavano) lo avevano invitato per una conferenza serale au bord de la mer. Parlò a villeggianti e ad abruzzesi-marchigiani (sito di confine, quello) del suo lavoro, dei libri, di come coniugare spiritualità e letteratura, fede e scrittura, valori irrinunciabili e declino socio-etico-culturale, ancora agli inizi nel decennio del rampantismo, del riflusso sul privato e di altre cose non ignobili.

Fu allora che, dopo il successo critico e solido in tutto il mondo, cominciò anche una certa ascesa “mondana” di Mario, ma nel senso buono, niente di cui arricciare il naso. Vediamo. Nell’85, II centenario della nascita di Manzoni, vinse il Premio Strega con il suo “romanzo manzoniano” Natale 1833, sulla morte di Henriette Blondel e il riflesso di tale dolore nella poesia di Don Lisander.

Il riconoscimento lo ottenne meritatamente, ma è chiaro che per averlo aveva bruciato pure lui i suoi grani d’incenso sull’altare di accordi fra editori, contatti coi giurati, PR con gli uffici stampa, interviste a rotocalchi ed emittenti varie… Peccatucci veniali, insomma, se pure lo sono. Il romanzo è bellissimo ed è una vera zoomata sul marito addolorato-scrittore inaridito, con il famoso cecidere manus, “mi è caduta la mano”, scritto da Manzoni frustrato nel tentativo di comporre un’ode – intitolata proprio come il libro pomiliano, Natale 1833 – pochi giorni dopo la morte dell’amata moglie.

Tanto zoomata che parlando con un altro scrittore, Ferruccio Ulivi, che pubblicò quell’anno una biografia dell’autore degli Inni sacri, mi confidò che se avesse imitato Pomilio dedicando tante pagine ai singoli eventi della vita di Manzoni gli sarebbe occorso non un volume ma un’intera enciclopedia!

Insomma, da quel grande autore che era, Pomilio a volte veniva anche discusso o educatamente preso in giro. In ogni caso io, per presentarlo oggettivamente e per difenderlo, scrissi due pezzi su L’Osservatore Romano di quegli anni: uno sulle inedite Strofe per una Prima Comunione, che interpretai come il sesto Inno Sacro, quello che manca, sull’Eucarestia, e l’altro un bilancio d’insieme, mi pare sull’Osservatore della Domenica, intitolato Noterelle pomiliane.

Dopo di che il Nostro “salì” ancora, eletto addirittura per la Democrazia Cristiana a Bruxelles un paio di legislature. Fu persona seria anche lassù, occupandosi di cultura e lavorando sodo nonostante d’età e gli acciacchi.

L’ultima volta che sentii parlare di lui vivo fu da parte del critico letterario di Civiltà Cattolica, di cui non ricordo il nome. «Pomilio mi ha confidato – disse durante un convegno –, che non può più scrivere ed è tutto un dolore». L’artrite reumatoide, che lo tormentava da anni, forse aveva ceduto il poso a qualcosa di peggio.

 

 

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