La Francia ex-colonialista, o forse ancora diversamente tale, ha la coscienza sporca a proposito dell’ultimo grande genocidio della storia. La visita del presidente Macron a Kigali, la scorsa settimana, lo ha dimostrato. Il primo cittadino francese ha chiesto perdono per i gravi errori commessi all’epoca del genocidio, in particolare per aver appoggiato il governo hutu all’epoca guidato da Juvénal Habyarimana, grande amico di Mitterrand, che preparò l’innominabile strage cominciata all’indomani della sua morte in un incidente aereo dubbioso.

Macron ha chiesto scusa per le colpe francesi, colpe legate alla miopia per quello che stava per succedere, senza però ammettere una vera complicità nei fatti del 1994, tre mesi e un milione di morti. Con l’aggravante che le questioni etniche non erano legate al sangue, misto già allora, ma a coloro che si presentavano come hutu e a quelli che avevano la sola colpa di rientrare nella definizione tutsi. In epoca di confessioni e di domande di perdono, bisogna ammettere che solo alcune Chiese cristiane e alcune istituzioni civili internazionali hanno il coraggio di chiedere perdono in modo incondizionato per le colpe dei loro comportamenti. Macron chiede perdono, ma non lo fa fino in fondo.

Sia come sia, il Ruanda è un Paese ormai irriconoscibile rispetto a quello che era negli anni ’90. E lo è anche per il lavoro del presidente quasi a vita Paul Kagame, forse un simil-dittatore al potere dal tempo del genocidio, ma in ogni caso un vero riformatore amato dalla sua popolazione. Un uomo dal pungo inflessibile, ma in ogni caso un lungimirante statista. Non c’è spazio per una reale democrazia parlamentare in Ruanda, ma l’attuale presidente ha comunque il consenso dei suoi perché all’indomani del genocidio ha saputo evitare che iniziassero quelle infinite vendette che seguono a ogni genocidio.
Un problema grave della politica di Kagame, forse il più grave, è il rapporto con la Repubblica Democratica del Congo. È risaputo – lo denuncia a chiare lettere tra gli altri il cardinale di Kinshasa −, che grandi multinazionali belghe, canadesi e altre europee e statunitensi hanno il “vizietto” di usare il Ruanda come base per trasformare una serie di minerali pregiati, le cosiddette “terre rare”, tra cui coltan e cobalto, materie indispensabili in particolare per la filiera del digitale. Piccoli aerei senza matricola fanno la spola tra RDC e regioni frontaliere del Ruanda atterrando su strade statali normalissime e imbarcando in un battibaleno, senza permettere alcun intercettamento, due o trecento chili di queste terre che nella regione del Nord Khivu si raccolgono direttamente in superficie, senza dover scavare costose miniere. Tali materiali vengono poi lavorati nelle industrie al di là della frontiera.
C’è di più. Queste attività di estrazione e di contrabbando commerciale avvengono in combutta con quella lunga serie di milizie hutu che si sono nascoste nelle foreste congolesi all’indomani del genocidio. Probabilmente anche il nostro ambasciatore Luca Attanasio è stato vittima di una di queste armate. Si tratta di circa 150 mila miliziani che ancor oggi non possono rientrare in patria. I profitti di queste attività, o meglio le tangenti che vengono pagate dalle grandi imprese per compensare l’ospitalità ruandese, sono state utilizzate da Kagame per sviluppare economicamente il suo Paese, che appare ora realisticamente candidato al titolo di “Svizzera africana”. Il visitatore europeo che capita in Ruanda, magari dopo essere passato per il Burundi, diventato nel frattempo il più povero Paese al mondo, si compiacerà per le strade impeccabili, le connessioni perfette, la sicurezza dei quartieri di Kigali. Indubbiamente avanzamenti notevoli, che testimoniano come anche i Paesi africani possano ragionevolmente superare lo stato di sottosviluppo cronico in cui spesso versano. Ma a quale prezzo?