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Francesco e la teologia del popolo

di Jesús Morán

Jesús Morán, autore di Città Nuova

Sembra esserci un profondo scarto tra l’esperienza e la visione di Bergoglio-Francesco e quella di tantissimi altri responsabili e impegnati nella Chiesa – anche quelli che vorrebbero seguirlo seriamente sulla via intrapresa di una rinnovata rivoluzione evangelica. Tutto questo – non lo si può negare – disorienta tanti fedeli, mentre fa esultare tanti non credenti, indifferenti e agnostici. Come si può spiegare un tale processo per cui quei gesti e quelle parole che ormai hanno cambiato radicalmente l’immagine della Chiesa, fanno fatica a diventare prassi di vita di tanti cristiani impegnati?

Francesco e teologia del popolo AP Photo/Rodrigo Abd

Evangelico segno di contraddizione. Per provare a capire in maniera sufficientemente adeguata quali siano le linee guida del pontificato di Francesco, cosa esso stia rappresentando per la Chiesa e per l’umanità e quali siano i significati di quasi tutte le sue parole, i suoi gesti, i suoi discorsi e i suoi documenti magisteriali, non si può prescindere dall’indagare almeno un po’ qualcosa dell’uomo Jorge Mario Bergoglio, del suo percorso esistenziale, della sua formazione gesuitica, della sua storia con Dio.

Avendo vissuto in America Latina e in Centro America per quasi 30 anni, effettivamente si capiscono la percezione e anche il pregiudizio che si possono nutrire in Europa circa il pensiero, la teologia e, quindi, la pastorale che provengono da quell’ambiente culturale.

Li, infatti, c’è un altro tipo di intellettuale più organico, più impegnato e meno speculativo, per cui, effettivamente, in Occidente possono sorgere dei dubbi sul pensiero, sui pronunciamenti e sull’azione di un papa come Bergoglio, anche perché i migliori teologi oggi in America Latina sono ancora poco conosciuti e questo costituisce un handicap notevole.

In tal senso un contributo da cui non si può prescindere è quello del filosofo Massimo Borghesi nel suo dettagliato lavoro del 2017: Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale[1] in cui viene approfondito, per la prima volta in maniera sistematica, il contesto culturale e intellettuale in cui si sono forgiate la sua personalità e il suo “pensiero” e da cui emerge, chiaramente e senza ombra di dubbio, come la simplicitas del suo essere e agire sia tutt’altro che ingenua poiché essa costituisce «un punto di arrivo che presuppone la complessità di un pensiero profondo e originale»[2].

Tale prima conclusione scompagina, immediatamente, buona parte delle valutazioni, favorevoli o contrarie, di varia natura che si sono succedute e continuano a riempire le pagine dei giornali e le trasmissioni televisive poiché ne mostra tutta l’insufficienza e ne smaschera il fazioso e sotterraneo tentativo di delegittimazione. Oltre a indicare un evidente pregiudizio – con annesso complesso di superiorità – circa tutto quanto, in ambito accademico e intellettuale, proviene dall’America Latina.

Il linguaggio di Bergoglio

In tutti questi tentativi quello che più di tutto manca è il riferimento alla sua effettiva personalità e formazione umana e intellettuale e pertanto il rischio è quello di presentare da una parte e dall’altra un Bergoglio che semplicemente non esiste, come sottolineato da Borghesi in più occasioni con riferimento sia ai suoi detrattori, che non si preoccupano minimamente di fare lo sforzo di studiare il suo percorso intellettuale, sia ai suoi fautori che in maniera quasi “apologetica” si profondono in affermazioni azzardate circa una pretesa «teologia profetica di Bergoglio che dovrebbe portare a una radicale rottura con il passato, e finendo, così, per veicolare l’immagine più utile per i critici di Bergoglio»[3].

Mettendosi nella prospettiva corretta, si capisce, così, che «il linguaggio di Bergoglio è “semplice” perché vuole essere semplice. È la semplicità come risultato di riflessione, semplicità evangelica e non limite di espressione»[4].

L’orizzonte ideale in cui si muove, fin dall’inizio della sua formazione, è quello della scuola dei gesuiti soprattutto francesi – Henri de Lubac, Gaston Fessard e Michel de Certeau (quest’ultimo fondamentale per far scoprire a Bergoglio la vita e il pensiero di Pierre Favre, che diventerà una figura di indiscutibile e costante ispirazione per papa Francesco) –, oltre che di quel vero e proprio “cenacolo intellettuale” sorto al Colegio Máximo a San Miguel, attorno alla figura di p. Miguel Ángel Fiorito[5], esperienza dal forte radicamento locale argentino.

Così come non si può sottovalutare l’influenza della fenomenologa argentina Amelia Podetti, con la sua reinterpretazione cristiana della dialettica hegeliana (Bergoglio confesserà di aver mutuato da lei la categoria delle “periferie”) e dei teorici della cosiddetta teologia del popolo, come Lucio Gera e Juan Carlos Scannone, e, infine, della riflessione della figura di uno dei più grandi intellettuali cattolici latinoamericani della seconda metà del ‘900, l’uruguaiano Alberto Methol Ferré, come puntualmente sottolineato da Rodrigo Guerra López:

Quante discussioni eviteremmo se ci lasciassimo interpellare dalla biografia intellettuale e pastorale del nostro papa! Nei principali istituti accademici dediti alla diffusione e all’approfondimento del magistero pontificio, professori e alunni hanno scarsamente dedicato uno studio serio e sistematico degli scritti di Jorge Bergoglio e dei suoi autori più amati come Lucio Gera, Juan Carlos Scannone o Methol Ferré.[6]

 

A questo proposito un ottimo aiuto è la corposa e documentatissima biografia di Austen Ivereigh[7] soprattutto per ciò che attiene alla sua posizione “politica” che continua ad essere fraintesa proprio per la mancanza di elementi essenziali di interpretazione e che è alla base del luogo comune di una presunta opposizione tra Bergoglio e Ratzinger. Infatti come sostiene Ivereigh:

Il radicalismo di Bergoglio non va confuso con la dottrina o l’ideologia progressiste. È un atteggiamento radicale perché è missionario e mistico. […] Egli non è nemmeno, come risulta altrettanto evidente, un papa della destra cattolica. […] Come fece con i gesuiti negli anni Settanta, Francesco sta cercando di unificare la Chiesa universale da un lato ancorandola ai comuni fedeli e ai poveri e dall’altro indirizzando il miliardo e duecento milioni di cattolici del mondo verso la missione e l’evangelizzazione […]. Rappresenta dunque l’occasione più grande che si sia offerta nell’arco di generazioni di comporre le spaccature tra cattolici progressisti e cattolici conservatori.[8]

Fondamentalmente, quello che emerge con forza dai contributi di Borghesi e Ivereigh – ed è cruciale per comprendere Bergoglio e, quindi, papa Francesco – è quanto Borghesi stesso formula così: «Tutto il pensiero di Bergoglio è un pensiero della riconciliazione. Non un pensiero “irenico”, ottimistico, ingenuamente progressista, ma, al contrario, un pensiero drammatico, “tensionante” […]»[9].

Tale posizione non va interpretata, solo, come atto interiore e passionale, personale e collettivo, quanto come riconciliazione a livello del pensiero e cioè nel puntare a una sintesi che integri i due termini della “tensione polare” a qualsiasi livello (affettivo, intellettuale e concreto)[10] e in qualsiasi dimensione (personale, comunitaria, ecclesiale, sociale e politica).

Romano Guardini

Tale idea forza Bergoglio la mutua dal filosofo Romano Guardini che opera una sostanziale distinzione tra “opposizione” (Gegensatz) e “contraddizione” (Widerspruch) ed è solo tale distinzione che può permettere di aprirsi a un’idea e una prassi di communio cattolica che non sia piatta, statica e uniforme ma ondulata, dinamica e pluriforme. «La “communio” si realizza in forma dialogica, nella paziente tessitura che non pretende di negare gli accenti, le sensibilità diverse che permangono»[11].

E questa è la prospettiva da cui parte Bergoglio – una volta divenuto papa Francesco – nel portare avanti il suo magistero per cui tutti i suoi gesti, le sue parole, i suoi pronunciamenti e le sue strategie sono ispirate e orientate dalla lucida consapevolezza interiore e intellettuale e dalla profonda esperienza esistenziale che solo un “pensiero incompleto” può restare aperto e in ascolto delle sorprese dello Spirito ed evitare il pericolo della autoreferenzialità e della doppia deriva gnostica o pelagiana[12].

Da qui emergono i suoi quattro principi ormai ben noti a tutti che non sono, quindi, degli slogan ad effetto, ma il risultato dell’esperienza e della riflessione di tutta una vita vissuta sul “campo” e di immersione totale nella realtà degli uomini e delle donne del nostro tempo: il tempo è superiore allo spazio; l’unità è superiore al conflitto, la realtà è superiore all’idea; il tutto è superiore alla parte. E soprattutto è in questa prospettiva che si può cogliere appieno quella che chiama la sua “formula”: «Se si vuole sapere cosa crede la madre Chiesa, occorre andare dal Magistero; ma se si vuole saper come crede la Chiesa, occorre andare dal “pueblo fiel”»[13].

La profonda convinzione contenuta in questa sintesi ha radici antiche che ritroviamo in un importante discorso tenuto all’apertura della XIV Congregazione Provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina, il 18 febbraio 1974, quando Bergoglio era giovane superiore provinciale:

Le culture sono il luogo in cui la creazione diventa autocosciente al suo massimo livello. Per questo chiamiamo cultura l’elemento migliore dei popoli, il più bello della loro arte, il più abile della loro tecnica, ciò che permette alle loro organizzazioni politiche di raggiungere il bene comune, alla loro filosofia di dare ragione del loro essere, alle loro religioni di collegarsi al trascendente attraverso il culto. Ma questa saggezza dell’uomo che lo porta a giudicare e a ordinare la propria vita a partire dalla contemplazione, non è dato né in astratto, né individualmente, ma è una contemplazione di ciò che è stato lavorato con le mani, a partire dal cuore e dalla memoria dei popoli, una contemplazione che si realizza attraverso la storia e in base al tempo.[14]

Davvero un testo sorprendente se si pensa che egli aveva raggiunto una tale sintesi già allora e ciò sottolinea ancor meglio il fatto che il pensiero di Bergoglio è inconcepibile se lo astraiamo dalla storia della Chiesa latinoamericana e dal fecondo humus del pensiero cattolico sgorgato in essa nel ’900. Si avverte – nell’insieme e in estrema sintesi – un chiaro e denotato sforzo di concepirsi a partire dall’unità. Anzi, addirittura, si intravede il tentativo di pensare in qual modo quella agognata unità di popoli e culture possa avvenire.

Una caratteristica di questa riflessione cattolica latinoamericana emerge dal costante confronto della Chiesa con la modernità da cui scaturirà quel “risorgimento cattolico” che ha avuto in Methol Ferré il suo massimo rappresentante intellettuale e che, in qualche modo, si è plasmato sui documenti del Celam a partire da Puebla. Il telón de fondo è certamente il Concilio Vaticano II reinterpretato – in modo particolare nel contesto del pensiero rioplatense – come la grande opportunità per superare la modernità assumendone, però, le istanze più positive e divenendo, pertanto, vero interlocutore della post-modernità, già allora, incombente[15].

I riflessi, in papa Bergoglio, di questo modo di leggere gli avvenimenti del presente non necessitano di alcun commento data la loro flagrante evidenza. Ed è in questo contesto che, ad Aparecida, i vescovi latinoamericani, con Bergoglio in testa, hanno cercato di contrapporre alla realtà di questa globalizzazione crescente, tecnocratica e iniqua, l’idea di una globalizzazione multipolare e solidale che in America Latina non può non passare per il rafforzamento dei legami della Grande Patria latinoamericana e cioè di quella configurazione sociale e culturale che precede la costituzione degli Stati-nazione e quindi è più reale[16].

Il protagonista principale del documento finale di Aparecida, come si sa, è l’allora cardinale di Buenos Aires, Bergoglio. In tale testo, detto in estrema sintesi, si cerca di collocare la Chiesa latinoamericana nel nuovo contesto socio-culturale venutosi a creare nei decenni che si sono succeduti a Puebla. Come afferma Borghesi:

Aparecida indicava il “metodo”, la modalità di rinascita della fede oggi, dentro un contesto nichilistico e secolarizzato, riandando a Lui, a Cristo, vedendoLo parlare, agire, amare, come una Presenza attuale. El pueblo fiel, i poveri, i testimoni, le comunità ecclesiali, divengono “luoghi teologici”, luoghi in cui si manifesta il volto di Cristo oggi. Del Cristo umiliato, di quello samaritano, di quello in croce, di quello che sorprende e attrae per la sua misericordia, il suo abbraccio, la sua umanità unica. Aparecida valorizzava tutto. […]

Ricompone i contrasti in una tensione polare tra passato e presente, tradizione e progresso, memoria e futuro. Lo fa collocandosi in “alto” o semplicemente nel “centro” equidistante dai poli. […] Ciò significa che la pace e l’unità si attuano solo curando le ferite, facendosi carico dei punti fragili, offrendo riparo agli oppressi. È lo stile cristiano nel nuovo millennio, uno stile che ripete quello della Chiesa degli inizi, immersa nell’universo pagano. Aparecida costituisce, di fatto, il “manifesto” di Bergoglio.[17]

E Bergoglio – una volta divenuto papa Francesco – ha, semplicemente, esteso questa missione alla Chiesa universale e al mondo intero. Pertanto, anche in seguito ai sempre più reiterati attacchi di tutti i tipi che gli vengono rivolti – in particolare quelli che partono dall’interno della stessa compagine ecclesiale –, diventa più che mai essenziale avere ben chiare queste linee di interpretazione per sapersi muovere equilibratamente nei vari e più disparati contesti in cui si opera proprio per evitare l’errore, che si evidenziava in precedenza, di alimentare le contrapposizioni che, inevitabilmente, la sua azione di tipico ed evangelico “segno di contraddizione” fa emergere.

In effetti la sua personalità non è di semplice comprensione poiché i suoi gesti e il suo parlare, la sua prossimità e la sua capacità empatica, l’uso continuo di immagini, a volte sconcertanti, traggono spesso in inganno – sia i suoi fautori che i suoi detrattori –, poiché si prestano a interpretazioni le più diverse e, anzi, sembra che volutamente egli si offra a tale strategia. In realtà come è stato sottolineato più volte, Francesco è un papa gesuita fino al midollo, con una solida formazione salesiana e una chiarissima impronta francescana.

Davvero una combinazione multipla piuttosto unica che non va mai sottovalutata perché sembra essere questa stessa diversità di percorsi esistenziali da lui vissuta e armonizzata a renderlo così imprevedibile, geniale e a dargli una visione della realtà a 360 gradi, frutto, proprio, della partecipazione a più carismi.

La Teologia del popolo

Il lavoro recente (2019) del suo confratello e professore Juan Carlos Scannone – La teologia del popolo. Radici teologiche di papa Francesco[18], ha ulteriormente messo in evidenza una insospettata – ai non addetti ai lavori – profondità di pensiero e di riflessione dell’uomo, del gesuita Bergoglio e quindi di papa Francesco. In particolare dopo un inquadramento storico della teologia argentina “del popolo” e della sua dimensione inculturata, Scannone sottolinea come, nella parte terza, “Approcci teologici-pastorali di papa Francesco”, vengano sviluppati

vari punti chiave della teologia e della pastorale di papa Francesco, mostrando il suo radicamento nella teologia del popolo, così come nei rapporti di questa con il magistero sociale latino-americano. Infatti, sia la suddetta teologia sia il detto magistero sono una continuazione inculturata, anche se di valore universale, del cambiamento di paradigma e di metodo teologici avvenuto nel concilio, specialmente con la Gaudium et spes […]. Quindi […] si sviluppa il legame diretto della teologia del popolo con la tabella di marcia del pontefice, cioè l’esortazione apostolica Evangelii gaudium. E, per ultimo, si approfondiscono alcuni temi centrali per Bergoglio che egli tratta nella stessa esortazione […][19].

Eppure sempre di più rimbalzano commenti sulla sua presunta impreparazione filosofico-dottrinale e interpretazioni riduttive del suo magistero arrivando, addirittura, a rinfacciargli – più o meno apertamente – di allontanarsi dalla sana Tradizione della Chiesa e a tacciarlo di supposta eresia! La questione è se tutto ciò sia solo un modo per attaccarlo di fianco, non potendolo fare altrimenti, oppure se c’è qualcosa nel pensiero e nell’azione di Francesco che effettivamente risulta troppo poco speculativo per gli intellettuali, troppo rivoluzionario per i prelati di Curia – e non solo – e troppo sfidante per i cattolici medi.

Soprattutto, sembra esserci un profondo scarto tra l’esperienza e la visione di Bergoglio-Francesco e quella di tantissimi altri responsabili e impegnati nella Chiesa – anche quelli che vorrebbero seguirlo seriamente sulla via intrapresa di una rinnovata rivoluzione evangelica. Tutto questo – non lo si può negare – disorienta tanti fedeli, mentre fa esultare tanti non credenti, indifferenti e agnostici. Come si può spiegare un tale processo per cui quei gesti e quelle parole che ormai hanno cambiato radicalmente l’immagine della Chiesa, fanno fatica a diventare prassi di vita di tanti cristiani impegnati?

È questa una domanda cruciale che si pongono non solo i semplici credenti ma anche molti addetti ai lavori. Tra questi, già nel 2017, Gianfranco Svidercoschi, giornalista, scrittore e da vari decenni molto esperto delle vicende vaticane, in Francesco l’incendiario[20], nell’accennare a «un papato tra resistenze, contraddizioni e riforme», sottolinea come, da buon seguace di Ignazio di Loyola che ricordava sempre «ite, inflammate omnia», Francesco ha fatto esattamente questo:

Ha infiammato il mondo. Ha infiammato gli animi, ha acceso passioni, ha suscitato affettività, simpatia, empatia. E ritenendo urgente che la Chiesa e i cristiani tornassero al Vangelo, e che perciò il Vangelo dovesse essere liberato da quel sovraccarico secolare di “pesi” che avevano finito per offuscarlo, per soffocarlo. Francesco ha dato alle fiamme l’ammasso enorme di loglio e di sterpaglia che impediva la semina e la crescita del buon grano: cioè, uscendo fuor di metafora, ha cominciato a destrutturare dalle fondamenta il vecchio sistema clericale. Con il risultato di provocare uno sconvolgimento tellurico, mettendo in crisi anche molti credenti, e infoltendo i gruppi degli oppositori.[21]

Mentre Marco Politi, altro profondo conoscitore di faccende vaticane, nel suo recente libro (2019) La solitudine di Francesco parla di «un papa profetico che combatte solitario in una Chiesa in tempesta». Nonostante tutto ciò e anche alcuni errori di valutazione e di scelte rivelatesi, in seguito, non esaurienti o non opportune,

in questo secondo tempo del pontificato, Francesco continua a muoversi con energia, spingendo avanti le frontiere della Chiesa. Alcuni dei suoi più lucidi avversari sanno che l’azione di Bergoglio ha creato situazioni irreversibili. […] Dice il card. Parolin, segretario di Stato […], che le «parole di Francesco sono accompagnate da gesti potenti». E infatti molta parte del pontificato è alimentata da gesti. […] I gesti sono carne e sangue del pontificato bergogliano, il modo con cui suggerisce di vivere il cristianesimo nel mondo contemporaneo.[22]

E ovviamente tali gesti, accomunati alle parole, non sono senza conseguenze e non lasciano indifferenti. L’azione di Bergoglio costringe a schierarsi e ciò in un mondo completamente omologato, liquido ed evanescente come il nostro, suona come un “giudizio” a cui non si può sfuggire, ma la novità incredibile è che non si tratta di un giudizio etico-morale – che è lasciato alla coscienza delle persone – ma fattuale, un giudizio di aderenza alla “realtà”. Da qui la categoria della “misericordia” così centrale nel suo intero magistero.

Tutto ciò ci porta inevitabilmente al cuore di tutta la questione, che è la dimensione interiore e più propriamente mistica di Francesco. In maniera completamente diversa dai suoi predecessori recenti, quasi tutti dichiarati santi (da lui stesso!) anche Francesco manifesta un indubbio profilo profetico e mistico e una provata abitudine alla disciplina interiore e intellettuale che lo ha condotto, pur con la grazia dello Spirito, a farsi trovare pronto per il compito immane che gli è stato riservato in un’epoca cruciale della storia dell’umanità e della Chiesa.

E che sia così lo ha confermato egli stesso più volte recentemente quando, intervistato circa le tragedie, le difficoltà, il fenomeno degli abusi, gli attacchi personali e la campagna di delegittimazione sempre più accesa, ha candidamente risposto così: «Conservo sempre la pace interiore che mi è venuta al tempo del conclave, è un dono dello Spirito che mi è arrivato sin dall’inizio del pontificato e che sento fino a oggi»[23]. E, come suo solito, ha aggiunto che non ha bisogno di nulla per dormire la notte!

Prassi sinodale e discernimento

C’è, però, oggi un testo che più che altri, può aiutarci a penetrare meglio in questa dimensione e si tratta del libro pubblicato all’inizio del 2019: Lettere della tribolazione[24], in cui Francesco riporta le sue riflessioni del 1987 a proposito delle 7 lettere che p. Lorenzo Rizzi, preposito generale della Compagnia di Gesù, eletto nel 1758, scrisse ai gesuiti tra il 1758 e il 1773, e di quella che p. Jan Roothaan, eletto nel 1829, inviò agli stessi membri dell’Istituto nel 1831, in due momenti cruciali della vita della Compagnia a cavallo della sua soppressione e ricostituzione.

Nella storia dei gesuiti, esse sono conosciute come “lettere della tribolazione”. Ebbene, a quelle lettere Francesco ha voluto aggiungere quelle indirizzate ai vescovi e al popolo cileno, e a tutto il popolo di Dio, in seguito ai tantissimi casi di abuso di minori, venuti alla luce negli ultimi tempi.

Davanti alla gravità di quei tempi, all’ambiguità delle situazioni che si erano create, il gesuita doveva discernere, doveva ricomporsi nella sua appartenenza. Non gli era lecito optare per alcuna delle soluzioni che negasse la polarità contraria e reale. Doveva “cercare per trovare” la Volontà di Dio, e non “cercare per avere” una via d’uscita che lo lasciasse tranquillo. Il segno di aver fatto un buon discernimento l’avrebbe avuto dalla pace (dono di Dio), e non dall’apparente tranquillità di un equilibrio umano o di una scelta in favore di uno degli elementi in contrapposizione. In concreto: non era di Dio difendere la verità a costo della carità, né la carità a costo della verità, né l’equilibrio a costo di entrambe.

Per evitare di trasformarsi in un verace distruttore o in un caritatevole bugiardo o in un perplesso paralizzato, il gesuita doveva discernere. Ed è proprio del Superiore aiutare il discernimento. Questo è il senso più profondo delle lettere che seguono: uno sforzo del Capo della Compagnia per aiutare il corpo ad assumere un atteggiamento di discernimento. Atteggiamento paterno, che protegge il corpo dalla disperazione e dallo sradicamento spirituale.[25]

Tutto ciò – per noi del Movimento dei Focolari – rappresenta un grande richiamo e una seria responsabilità per la consonanza anche verbale, davvero impressionante, con quanto Francesco ci ha detto nella sua visita alla nostra cittadella internazionale di Loppiano e in altre occasioni.

E davvero quell’incontro è stato, per tanti osservatori, interni ed esterni al Movimento, un evento di Chiesa nel senso più vero della parola, in cui il papa ci ha indicato i punti salienti che bisogna necessariamente approfondire in questo momento in cui l’Opera di Maria sta passando dalla fase carismatica fondazionale a quella della successiva incarnazione che, a sua volta, non può rinunciare alla dimensione più propriamente profetica pur dovendo cimentarsi con tutti i limiti imposti dalle varie realtà complesse e articolate del mondo della globalizzazione in cui siamo tutti immersi.

Pertanto si può considerare quel discorso come il vademecum per una comunità cristiana aperta a tutti e che si ponga decisamente alla sequela di Cristo nel nostro tempo proiettandosi, con nuovo slancio, verso un futuro dall’orizzonte ampio e di avanguardia. In particolare per noi – Opera di Maria – si tratta di crescere decisamente in celestialità e socialità superando l’eccessiva frammentazione che non di rado si riscontra e può derivare dalle nostre strutture storicamente molto stagliate nei loro rapporti al vertice, ma non sempre altrettanto attente a una prassi sinodale effettiva, a un discernimento efficace e a quella prospettiva ampia della teologia del Popolo di Dio.

 

 

Dal Dossier Francesco edito dalla Rivista Città Nuova

[1]     Jaca Book, Milano 2017.

[2]     Ibid., p. 10.

[3]     Conversazione privata con l’autore (giugno 2018).

[4]     M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, cit., p. 19.

[5]     Particolarmente illuminante l’articolo molto recente: J.L. Narvaja S.I., “Miguel Ángel Fiorito. Una riflessione sulla religiosità popolare nell’ambiente di Jorge Mario Bergoglio”, in «La Civiltà Cattolica» 2018, II, 18-29, 4027 (7/21 aprile 2018).

[6]     Cit. in M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, cit., p. 20.

[7]     A. Ivereigh, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, Mondadori, Milano 2014.

[8]     Ibid., p. 439.

[9]     M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, cit., p. 23.

[10]   Ritroviamo qui la radice profonda di ciò che egli ripete spesso sui tre linguaggi necessari nel percorso di formazione: quello del cuore, quello della testa e quello delle mani.

[11]   M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, cit., p. 122.

[12]   Cf. Gaudete et exsultate; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera Placuit Deo ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della salvezza cristiana (22 febbraio 2018).

[13]   Cf. J.L. Narvaja S.I., “Miguel Ángel Fiorito. Una riflessione sulla religiosità popolare nell’ambiente di Jorge Mario Bergoglio”, cit., pp. 21-23.

[14]   Ibid., p. 22, nota 14. Cf. J.M. Bergoglio, Meditaciones para religiosos, Buens Aires, Diego de Torres, 1982, p. 162.

[15]   Cf. M. Borghesi, cit., p. 161.

[16]   Ibid., 202.

[17]   Ibid., 291.

[18]   Queriniana, Brescia 2019.

[19]   Ibid., pp. 6-7.

[20]   TAU Editrice, Todi (PG) 2017.

[21]   Ibid., quarta di copertina.

[22]   Idib., pp. 215-216.

[23]   Idib., p. 214.

[24]   Cf. J.M. Bergoglio / Papa Francesco, Lettere della tribolazione, Àncora, Milano 2019.

[25]        Ibid., p. 21.

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