La preoccupazione non è poca per la recente fiammata di violenza che si sta registrando ai confini (incertissimi) tra Israele e Territori palestinesi. Perché questa crescita della conflittualità, dopo lo tsunami del Covid-19, non era attesa così presto, persino dagli osservatori più attenti. Anche se la moltiplicazione degli sfratti ai danni dei palestinesi a Gerusalemme Est, ma non solo, non prometteva nulla di buono, così come le tante vicende legate alle prossime elezioni palestinesi. Nei fatti, Hamas, nonostante i controlli, è riuscita a riarmarsi, visto che la potenza di fuoco dei razzi in partenza dalla Striscia di Gaza è improvvisamente aumentata, al punto che è stato messo in crisi persino il potentissimo sistema antimissili messo in atto dai governi israeliani nell’ultimo decennio con spese faraoniche. L’emergenza ormai riguarda buona parte dello Stato di Israele, fino alla Galilea, al punto che si teme una reazione su larga scala del governo di Tel Aviv, perché la paura sta crescendo in modo esponenziale non solo – come da norma – nei Territori palestinesi, ma anche nello Stato ebraico. Difficile, ormai, che non si attui una prova di forza da parte israeliana prima che possa essere messo in atto un qualsiasi accordo di pace, o piuttosto di tregua.
Tra le cause della nuova fiammata di violenza, non sono molti coloro che avanzano la precarietà dei governi e dei sistemi politici in tutta la regione. La stabilità è per ora assicurata solamente da regimi dittatoriali o simil-dittatoriali: dalle monarchie del Golfo, alla Turchia, all’Egitto. Il resto è precarietà crescente, incertezza del futuro e mancanza di prospettive.

Il primo nimistro israeliano Netanyahu (Amit Shabi/Pool Photo via AP).
L’analisi è presto fatta per i due contendenti diretti: in Israele non si riesce da due anni a formare un governo stabile, il che tuttavia non riesce a scalzare Netanyahu dal suo posto, che mantiene con equilibrismi degni di un grande funambolo. E i piccoli partiti, per il complesso sistema di voto israeliano, possiedono delle potenzialità ricattatorie decisive, al punto da condizionare l’intera vita politica nazionale.
Nei Territori palestinesi, le elezioni previste a partire da maggio, il 29 aprile scorso sono state rinviate, e la lotta tra il presidente Abu Mazen col suo partito Fath e la fazione estremista di Hamas, con l’appoggio nemmeno tanto segreto degli Hezbollah libanesi, non pare promettere al solito nulla di buono. Se la comunità internazionale sembra aver preso in gran parte le distanze da Hamas, la fazione è guidata dalla Striscia di Gaza da una nuova generazione di leader ancora più agguerriti dei precedenti, seppur forse forniti di un maggior realismo.
Ma tutta la regione è in stato di precarietà: in Libano, tutti lo sanno, non c’è nemmeno un governo e l’intero scacchiere politico è bloccato per i veti incrociati dei vari candidati premier, con la complicazione di una costituzione multiconfessionale. L’esplosione dello scorso agosto ha semplicemente evidenziato l’incredibile incapacità dei governanti di lavorare per il bene comune, anche qui per la rivalità inveterata di gran parte del Paese contro gli Hezbollah filoiraniani.
Ma persino la vicina Giordania è attraversata da pericolose tensioni, che nel mese di marzo hanno portato a un finto minigolpe che ha avuto come protagonista il fratellastro dell’attuale re, Hamza, che nella linea dinastica hashemita aveva il primo posto dopo Abdallah II, il quale, però, ripetendo quanto aveva fatto suo padre Hussein, che aveva escluso dalla linea dinastica il fratello Hassan, preferendogli il proprio figlio, ora ha privilegiato il suo di figlio. Dell’Iraq, tornato sotto i riflettori della politica internazionale per qualche istante in occasione della visita di papa Francesco, sappiamo la notoria difficoltà a conciliare le presenze sunnita e sciita, quest’ultima a sua volta divisa tra autonomisti e filoiraniani. Della Siria, meglio poi non parlarne.
Conclusione ovvia: la precarietà non può quasi mai assicurare la pace, anche perché, da che mondo è mondo, la ricerca di un nemico “esterno” da combattere è il primo mezzo che i governi precari usano per assicurarsi una maggiore stabilità. Il futuro, quindi, è al solito incerto, anche perché l’attenzione del mondo intero è oggi concentrata sulla lotta al Covid, e lo sarà almeno per i prossimi 5 o 6 mesi. Che rischiano di vedere prolungata la tragedia dei due popoli obbligati a convivere nella stessa terra, mentre la comunità internazionale si rifiuta, o piuttosto non ha la forza, di volgere lo sguardo verso la regione delle tre grandi religioni monoteistiche.