«La misericordia non si afferma “contro” la verità ma come manifestazione della verità» .Continua il dialogo con Amelia J. Uelmen, docente di diritto presso la Georgetown university con sede a Washington DC, a propostito della proposito della proposta di una visione di Chiesa e società proposta da papa Francesco in un contesto fortemente polarizzato e diviso come quello statunitense?
Come pensa sia possibile accettare la sfida dell’oggi, a livello civile ed ecclesiale, senza rinunciare alla profezia evangelica ma restando pienamente nel cuore delle situazioni, delle tensioni e dei conflitti?
Per capire meglio la sfida che papa Francesco ci pone davanti penso sia utile fare un passo indietro per cogliere una caratteristica del suo sistema di pensiero. Massimo Borghesi scrive: «Tutto il pensiero di Bergoglio è un pensiero della riconciliazione. Non un pensiero “irenico”, ottimistico, ingenuamente progressista, ma, al contrario, un pensiero drammatico, “tensionante”»[2].
In un’intervista con Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, papa Francesco parla dell’influenza che Romano Guardini ha avuto sul suo pensiero: «L’opposizione apre un cammino, una strada da percorrere. Parlando più in generale devo dire che amo le opposizioni. (…) Guardini parlava di una opposizione polare in cui i due opposti non si annullano. Non avviene neanche che un polo distrugga l’altro. Non c’è contraddizione né identità. Per lui l’opposizione si risolve in un piano superiore. (…) La tensione rimane, non si annulla. I limiti vanno superati non negandoli»[3].
Possiamo cogliere delle tracce di questa “teoria delle opposizioni polari” nella Gaudete et exsultate. Per esempio, nel quarto capitolo, dove egli tratta delle «caratteristiche spirituali che (…) sono indispensabili per comprendere lo stile di vita a cui il Signore ci chiama» (GE, 110).
Da una parte il papa riconosce quanto sia facile essere coinvolti «in reti di violenza verbale» (GE, 115) e ci incoraggia a «lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche» (EG, 114). Pazienza, perseveranza e mitezza sono le attitudini che riflettono la “forza interiore” che emerge dall’essere radicati in Dio Amore. «La fermezza interiore, che è opera della grazia, ci preserva dal lasciarci trascinare dalla violenza che invade la vita sociale, perché la grazia smorza la vanità e rende possibile la mitezza del cuore» (EG, 116).
Dall’altra parte, la santità è anche parresia: «Audacia, entusiasmo, parlare con libertà, fervore apostolico» (EG, 129). «Abbiamo bisogno della spinta dello Spirito per non essere paralizzati dalla paura e dal calcolo, per non abituarci a camminare soltanto entro confini sicuri. Ricordiamoci che ciò che rimane chiuso alla fine ha odore di umidità e ci fa ammalare». (EG, 133).
Pensiamo a cosa potrebbe significare il riuscire a tenere insieme queste due dimensioni, parresia e hypomonè, nel pieno delle attuali tensioni politiche, sociali ed ecclesiali? E come il mantenere le opposizioni in tensione creativa potrebbe intrecciare l’umiltà di «beati i miti» con il coraggio di «beati quelli che hanno fame e sete di giustizia»? Perché «misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (Sal 85, 10).
Teoricamente, tutti potrebbero essere d’accordo con tale prospettiva eppure, non appena si passa al concreto, le difficoltà appaiono insormontabili e non solo a livello di nazioni e popoli, quanto anche tra gruppetti e singoli individui. Ha qualche indicazione concreta da suggerire?
Queste tensioni sono profonde e senza tempo e non si possono risolvere nello spazio di una risposta, ma quello che vorrei suggerire sono alcune pratiche che potrebbero illuminarci su come interagire tra noi nei nostri posti di lavoro, nelle comunità, nelle aule scolastiche dove sorgono esse sorgono.
Un primo suggerimento è quello di ricavarsi del tempo ogni giorno per coltivare una propria vita interiore che ci permetta di andare oltre il groupthink[4].
Per spiegare meglio la posta in gioco mi servo di un esempio letterario. Mi è capitato di leggere The Giver, il romanzo di Lois Lowry del ’93, (dal quale, alcuni anni fa, è stato tratto il film The Giver. Il mondo di Jonas) nel quale viene descritta una società che raggiunge un certa pace superficiale al prezzo dell’uniformità con l’eliminazione di tutte le possibili differenze, tra le quali i colori, la memoria, la topografia, i sentimenti profondi. Il dodicenne Jonas impara che per controllare certe cose bisogna lasciarne andare altre. E quando occorre prendere delle decisioni importanti, la Comunità sceglie una persona che dovrà ricevere dal Donatore le Memorie dell’Umanità, quindi anche tutti i sentimenti tra cui la percezione del dolore e delle differenze.
È un romanzo che, per tanti motivi, si presta a farci riflettere su quello che potrebbe succedere alle persone e alle comunità se le esperienze più intime come nascere, diventare genitori, scegliere la propria strada nella vita, morire venissero sganciate da qualsiasi dimensione trascendente e affidate a un controllo autoritario.
Quello che, però, più mi ha colpito leggendo il romanzo alla luce delle attuali sfide culturali, sono le istruzioni che vengono date a Jonas per prepararsi a svolgere il suo ruolo. Per esempio la ricerca dell’uniformità crea dei meccanismi comunicativi insidiosi in cui viene considerato inopportuno fare alle persone domande che possano metterle a disagio. Ai ragazzi viene insegnato a parlare senza filtri e non c’è spazio per la privacy. Invece Jonas è esentato da tali regole e può agire diversamente.
Di tutte le istruzioni che gli vengono date, quella che più mi ha fatto riflettere riguardava l’indicazione di coltivare una certa privacy, ma forse sarebbe meglio dire una dimensione interiore. Infatti le mie stesse ansietà sono spesso pacificate se non addirittura sanate quando riesco a prendermi il tempo opportuno per riflettere, meditare e pregare.
E così mi capita di osservare anche con i miei studenti quando riescono a rimettere in ordine i loro pensieri scrivendo prima delle discussioni durante i seminari. È interessante il fatto che sembra esserci una diretta correlazione tra il tempo che ci prendiamo a riordinare i nostri pensieri e ad indirizzarli opportunamente e la capacità di aprirci e accogliere quelli degli altri.
Papa Francesco sottolinea stupendamente questa dimensione: «Tutto si riempie di parole, di piaceri epidermici e di rumori ad una velocità sempre crescente. Lì non regna la gioia ma l’insoddisfazione di chi non sa per che cosa vive. Come dunque non riconoscere che abbiamo bisogno di fermare questa corsa febbrile per recuperare uno spazio personale, a volte doloroso ma sempre fecondo, in cui si intavola il dialogo sincero con Dio? In qualche momento dovremo guardare in faccia la verità di noi stessi, per lasciarla invadere dal Signore» (EG, 29).
Ma nel mondo attuale dove tutto è sempre più veloce, le agende sono sempre più fitte di impegni e occorre sempre essere competitivi, come è possibile realisticamente invertire la tendenza e re-imparare a dedicare tempo a se stessi e agli altri?
È necessario un passo ulteriore. Occorre, infatti, semplicemente “rallentare” fino a fare in modo che questa ritrovata capacità riflessiva permei le nostre interazioni con gli altri. Ritengo che uno dei più grandi ostacoli nel saper discernere i passi da compiere in una società polarizzata sia la sensazione di dover avere sempre risposte immediate e a portata di mano, a questioni e situazioni, a problemi culturali ed ecclesiali profondi e laceranti. Il tempo scade e la nostra pazienza si esaurisce. Come scrive papa Francesco: «Se viviamo agitati, arroganti di fronte agli altri, finiamo stanchi e spossati» (EG, 72).
Mi è capitato recentemente di trovare un testo del 1546 che mi ha molto aiutato ad apprezzare la natura durevole delle sfide comunicative in mezzo alle controversie ecclesiali e culturali. «Di come trattare con gli altri» è una istruzione di sant’Ignazio di Loyola ai gesuiti che fungevano da teologi dei legati papali che presiedevano il Concilio di Trento. Dopo una breve introduzione, le prime parole di Ignazio sono: «Siate lenti nel parlare». E in seguito aggiunge: «Siate lenti nel parlare e solo dopo aver ascoltato con calma così che possiate cogliere i significati, le inclinazioni e i desideri di quelli che parlano. Così che saprete capire quando è meglio parlare e quando tacere»[5].
Nell’ambito del diritto e della politica, in effetti, pochi ruoli richiedono delle risposte immediate e reattive. Prendersi delle pause è quasi sempre molto utile nel processo di ponderata valutazione di quanto le nostre risposte possano esprimere il dovuto rispetto per la dignità delle persone che sono invischiate in crisi, situazioni e avvenimenti.
La raccomandazione di sant’Ignazio di “ascoltare con calma” è molto di più che non semplicemente stare zitti mentre l’altro parla. Nella mia esperienza, la maggior fonte di disturbo che impedisce di cogliere la realtà che sta dietro quanto l’altro ci sta dicendo non è nel fatto che la nostra testa è ingombra da ciò che vorremmo dire in risposta, ma dalla tendenza di incasellare quella persona o quell’avvenimento in categorie troppo restrittive da capire. “Ascoltare con calma” significa coltivare uno spirito aperto e caritatevole che sa riconoscere quanto lavoro è necessario per capire “i significati, le inclinazioni e i desideri” di chi parla.
Quando i miei studenti sono tentati di andare subito al punto della questione con cui sono in disaccordo, li invito a immaginare di disegnare un cerchio attorno alla questione, in modo da esplorare la circonferenza dei fattori e delle intenzioni che potrebbero aver portato l’altra persona a quella posizione. Se riusciamo a rallentare sufficientemente da ricomporci e saper “ascoltare con calma” gli altri, sia di persona sia attraverso i media, potremmo trovarci su un sentiero molto più proficuo e promettente verso la riconciliazione delle polarità.
In questo orizzonte, quale le sembra essere l’atteggiamento più idoneo ad aiutare soprattutto i giovani e quale invito di papa Francesco vorrebbe indirizzare loro?
Nella mia esperienza di insegnamento e di impegno in comunità ho notato che i giovani sono alla ricerca di relazioni e di ambienti dove possano manifestare sinceramente i loro limiti e le loro sofferenze. Come risulta evidente dalle recenti indagini sui livelli vertiginosi di ansietà e depressione negli adolescenti e nei giovani, molti di loro combattono per liberarsi dal timore paralizzante del fallimento o dalla eccessiva preoccupazione per la propria immagine.
Secondo papa Francesco, «la persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore, è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice. Quella persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo. Così può avere il coraggio di condividere la sofferenza altrui e smette di fuggire dalle situazioni dolorose. (…) Questa persona sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita, ha compassione fino a sperimentare che le distanze si annullano» (EG, 76).
Scavare dentro di sé e mostrarsi vulnerabili – come quel mio studente – per condividere il proprio dolore e permettere agli altri di parteciparvi potrebbe aiutare a illuminare i processi di discernimento. Poco prima della sua morte, Thomas Merton scrisse una preghiera suggestiva che sottolinea un livello ulteriore di questa dinamica; «O Dio, noi siamo uno con te. Tu ci hai fatti uno con te. Tu ci hai insegnato che se ci apriamo gli uni con gli altri, tu dimori in noi. Aiutaci a mantenere questa apertura e a difenderla con tutto il nostro cuore».
Facendo così, nel nostro tempo frenetico e pieno di tensioni e distrazioni, possiamo davvero essere per il mondo il popolo delle “beatitudini”.
[2] M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017, p. 23.
[3] Ibid., p. 121.
[4] Si può considerare il groupthink una sorta di pensiero dominante che tende ad eliminare ogni differenza.
[5] Ignazio di Loyola, Ai padri che partecipano al Concilio di Trento (Roma, 1546), “Di come trattare con gli altri”. Cf. https://www.library.georgetown.edu/woodstock/ignatius-letters/letter8.
Qui il link alla prima parte dell’intervisita