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La risposta di Seul alla pandemia

di Giovanni Vecchio

- Fonte: Città Nuova

In quella che potrebbe essere la tipica città del futuro, le tecnologie sono diventate protagoniste del controllo della pandemia. Ma ci sono zone d’ombra e problemi di privacy

Seul

Il miglior posto in cui vivere durante la pandemia del Covid-19 è l’Asia. Sembra paradossale, sapendo che il coronavirus ha iniziato il proprio giro del mondo in Cina. Eppure, secondo l’indice di resilienza al Covid elaborato mensilmente da Bloomberg sono proprio alcuni paesi asiatici – Corea, Taiwan, Singapore – ad aver la maggior capacità di risposta di fronte alla pandemia, grazie soprattutto all’ottimo tracciamento dei contagi.

Città asiatiche come Seul, capitale della Corea del Sud, stanno riuscendo a controllare la pandemia utilizzando soluzioni tecnologiche già impiegate quotidianamente nella gestione delle città e dei loro servizi. Eppure, siamo sicuri che l’unica città sicura di fronte alla pandemia sia una smart city?

La smart city è una città in cui servizi e infrastrutture sono progettati, realizzati e gestiti in maniera efficiente usando i dati raccolti attraverso molteplici sensori. I sensori sono di diverso tipo: che si tratti di cellulari, telecamere che controllano il traffico, stazioni metereologiche che monitorano le condizioni atmosferiche, le città sono sempre più pervase da dispositivi in grado di raccogliere dati in tempo reale e permettere di rispondere a qualsiasi imprevisto – che si tratti di un incidente stradale, una forte pioggia improvvisa o un evento particolarmente affollato.

Grazie a una forte politica di investimenti nelle tecnologie, Seul funziona da anni come una smart city. E le tecnologie della smart city sono diventate protagoniste del controllo della pandemia. Lo dimostra il controllo quotidiano dei movimenti delle persone.

Per ricostruire gli spostamenti delle persone contagiate, Seul e la Corea hanno iniziato a incrociare informazioni provenienti da fonti (e sensori) differenti. Ad esempio, i pagamenti con carte di credito permettono di vedere i luoghi in cui una persona ha mangiato o fatto acquisti, nonché i suoi viaggi con i mezzi pubblici. La localizzazione del telefono dà un’idea delle zone in cui la stessa persona si è spostata. Infine, le telecamere presenti in moltissimi spazi pubblici e privati della città permettono di osservare i passanti e riconoscerne l’identità, associando ogni volto a un nome.

È così che Seul è riuscita a ricostruire gli spostamenti delle persone con coronavirus, scoprendo anche quante persone erano entrate in contatto con loro e riuscendo così a cercare attivamente nuovi casi di contagio. La capitale coreana ha utilizzato big data – l’immensa mole di dati sui nostri spostamenti, viaggi e consumi che generiamo quando usiamo un qualche dispositivo tecnologico – e li ha resi open, liberamente disponibili a chiunque faccia ricerca, prenda decisioni o sviluppi nuove tecnologie.

Di fronte all’esperienza di successo di Seul, dobbiamo augurarci che dopo la pandemia tutte le città diventino smart cities? Sono molti i problemi di un approccio tecnoscientifico ai problemi urbani basato sulla sola tecnologia. I dettagliatissimi dati raccolti dai molteplici sensori urbani descrivono con gran precisione la situazione delle nostre città, ma non possono dirci quali sono le soluzioni più adatte per realizzare le città che desideriamo.

Inoltre, i dati hanno grandi zone d’ombra. Basti pensare a quanti, non avendo uno smartphone o non essendo connessi, non producono dati e risultano quindi invisibili al sistema. Infine, la pervasività dei dati solleva importanti problemi di privacy e democrazia, come avviene in Cina – in cui i dati prendono atto del comportamento di ogni persona e le attribuiscono un punteggio, riconoscendo buoni e cattivi cittadini.

A Seul, grazie alla pandemia stiamo osservando come potrebbe essere la città del futuro: una città in cui senza dubbio l’innovazione è protagonista, ma in cui non può essere la sola tecnologia a renderla smart.

Le altre puntate della serie:

Barcellona

Santiago del Cile

2020, escape from the cities (and back)

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