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È tempo di boicottare la guerra. Intervista a Tommaso Greco / 2

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Seconda parte del dialogo con il professore di Filosofia del diritto dell’Università di Pisa che ha presentato in Vaticano il messaggio di Leone XIV sulla giornata mondiale della pace. L’unica via per una pace giusta e duratura richiede una forte iniziativa politica da parte dell’Europa e la ferma volontà collettiva di rifiutare la follia della guerra come soluzione ai complessi problemi del XXI secolo.

Armi da guerra. Foto di Daniel su Unsplash

La prima parte dell’intervista si è conclusa con la citazione di Gustavo Zagrebelsky sull’unica verità persistente della guerra: c’è una netta distinzione tra «chi la fa» e «chi la fa fare». Lo affermava anche don Mazzolari, in un suo testo del 1945, “Il compagno Cristo” (il cui titolo doveva essere “Il vangelo dei reduci”), quando scriveva «tra quei che non sono partiti ci sono coloro che vi hanno fatto partire».

E quindi oggi a 80 anni da quelle parole si può mantenere la stessa chiarezza di giudizio?   

Credo che si debba elogiare e ammirare i giovani europei che in questo momento si stanno mobilitando in molti Paesi dichiarandosi non disponibili alla guerra. Il loro melvilliano “preferirei di no” non è assolutamente figlio dell’essere una generazione di ‘viziati’ che non ne vogliono sapere di sacrificarsi, come vorrebbe la ‘narrazione’ alimentata da coloro che resteranno nelle loro case, ma discende dall’essere consapevoli dell’assurdità della guerra; dal sentire lucidamente che la guerra deve diventare un tabù, e che per quanto li riguarda è già così. Non a caso, chi li stigmatizza afferma esplicitamente che le classi dirigenti europee — quelle stesse che stanno mortificando la democrazia in ogni passaggio relativo al riarmo e alla guerra — devono impegnarsi in un vasto programma di “rieducazione” nei confronti dei giovani. Non ci aspettano tempi belli, insomma. Ma su questo piano si vedrà quale sarà la forza della società civile, e quanto saremo capaci di fare resistenza a questa propaganda e a questo bellicismo che prepara una nuova catastrofe.

L’idea dell’invasione si sta comunque facendo strada e la lezione di don Milani sulla disobbedienza è quasi svanita in buona parte dei giovani. Teniamo presente che l’Italia repubblicana celebra tuttora le sue liturgie laiche delle grandi feste con la parata militare e la visita al Vittoriano con il sacello del milite ignoto sotto l’effige della dea Roma.

A chi parla della prossima imminente “invasione” occorre chiedere dati, fatti, prove di quanto afferma. E poi bisogna chiedere anche di cominciare a nominare chi dovrà partire per combattere. Perché quando si dice che “dobbiamo essere pronti a sacrificare i nostri figli”, si dice qualcosa di troppo generico. I figli di chi? Quali sono i corpi che dovranno immolarsi sul fronte?

Occorrerebbe davvero invertire questa narrazione e porre la pace come fondamento di ogni discorso e di ogni scelta. Anche a livello simbolico. Riprendo nuovamente Zagrebelsky quando afferma che il sacello della Vittima ignota andrebbe dedicato «ai disertori, cioè a coloro che rifiutano l’ordine della guerra, il suo linguaggio, la sua violenza, la sua coercizione, il suo insopportabile orrore», perché «nella maggior parte dei casi, chi perde la vita in guerra non è un eroe, è una “pecora muta” sospinta in un gregge».

In questa direzione, occorrerebbe quindi ripensare alcuni dei nostri simboli. Celebrare il 2 giugno vuol dire celebrare la fine della violenza e della guerra, perché quello è il giorno in cui il popolo italiano — democraticamente, con la matita in mano e non col fucile —, ha deciso la forma dello stato nel quale avrebbe vissuto negli anni futuri. Certamente, non si può negare che alle spalle del 2 giugno ci sono la guerra, la guerra partigiana e il 25 aprile; ma il 2 giugno in quanto tale è la festa della democrazia, è la festa in cui ad essere celebrata dovrebbe essere la capacità della ragione e della partecipazione — che sono il contrario della forza e della violenza — di determinare il futuro di un Paese. Ciò non significa essere contro l’esercito italiano, che ha il suo ruolo importante nel funzionamento e nella difesa della nostra repubblica democratica. Ma significa non dimenticare il significato profondo di ciò che celebriamo.

Ancora un dubbio, se mi permette. Anche Simone Weil, da pacifista, non andò a combattere in Spagna per difendere la repubblica dai franchisti? E non decise poi di recarsi a Londra per sostenere la resistenza armata contro il nazismo al contrario di alcuni suoi amici che collaborarono con la Repubblica di Vichy come male minore? 

Occorre distinguere il suo intervento nella Guerra Civile Spagnola – motivato da una radicale esigenza di coerenza personale (“non potevo stare a guardare, visto che l’esito di quel conflitto non mi era indifferente”, così scrisse nel 1938 a Georges Bernanos) – dalla posizione assunta, a conclusione di una evoluzione, durante la Seconda Guerra Mondiale. Anche quando riconosce la necessità di sconfiggere Hitler, Weil insiste sull’importanza delle forme di resistenza non violenta, come il boicottaggio e la non collaborazione, per mettere in crisi il sistema di dominio dell’invasore dall’interno. Ma soprattutto, è convinta che sia necessario fondare l’eventuale vittoria contro un nemico così temibile su un principio diverso da quello della forza. Il suo “Progetto per un corpo di infermiere di prima linea” simboleggia proprio questo: la volontà di proporre un principio alternativo alla violenza nel cuore stesso del conflitto e di farne il fondamento del futuro ordine sociale.

E oggi cosa dobbiamo fare?

Rimanendo nella prospettiva weiliana, dobbiamo saper contrapporre alla “falsa grandezza” della forza, dell’arroganza e dell’imporsi sugli altri, la “vera grandezza” della mitezza, del dialogo e del fare spazio all’altro. Una ‘grandezza’ completamente diversa di cui può essere custode anche il diritto internazionale. Sappiamo che è difficile perché quasi tutti gli organi informativi, oltre che quasi tutti i politici e governanti, hanno un animo devoto della falsa grandezza (basta vedere in che termini si parla di nazione e di patria). Purtroppo, l’atteggiamento prevalente è quello che propaganda la ragione (o meglio, s-ragione) bellica. C’è una totale sfiducia nel fatto che percorsi e strumenti nonviolenti possano essere efficaci, e per questo motivo si assiste alla continua delegittimazione dei pacifisti, fatti passare per alleati dei violenti (papa Leone ha anzi parlato di ‘derisione’ nel suo saluto all’Angelus del 26 dicembre). Questo, tra l’altro, è un tema che interroga direttamente il mondo della politica di ispirazione cristiana. Quando si distingue troppo nettamente tra ciò che l’approccio pacifista difeso dalla Chiesa richiederebbe di mettere in atto, e una presunta “politica responsabile” che “realisticamente” non può non essere messa in atto, si dimostra di credere davvero poco alla forza delle idee in cui si crede (o si dice di credere).

Invece, a suo parere, cosa insegna la storia?  

La storia insegna che la nonviolenza ha strumenti efficaci che possono essere messi in atto. Esiste anzi una difesa della patria che non usa le armi, di cui i corpi civili di pace sono la massima espressione (ne parla diffusamente il libro “La difesa della patria. Con e senza armi” pubblicato nel 2010 da due amici e colleghi, Pierluigi Consorti e Francesco Dal Canto). La tesi secondo cui sono solo le armi ad essere efficaci è molto fragile e deve essere ancora dimostrata. Quando si va a combattere non si può essere sicuri che, siccome si è dalla parte giusta, si arriva alla vittoria. Non è così che funzionano le cose. Come ricordava Norberto Bobbio, in più occasioni, in guerra non vince chi ha ragione, ma ha ragione chi vince.

Per concludere, la verità è che non c’è nessuna realtà predeterminata, come i “realisti” vorrebbero far credere. La realtà si determina e ridetermina costantemente sulla base delle scelte che facciamo anche noi, non solo il nostro presunto nemico. Un esercizio di vera responsabilità, oggi, vorrebbe che l’Europa si facesse paladina del diritto e della pace, che costituiscono il vero principio su cui essa è stata fondata.

Qui il link alla prima parte dell’intervista.

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