È rimasto deluso chi si aspettava un documento astratto da parte della Cei a proposito di educazione alla pace. La Nota è arrivata infatti in uno scenario in cui l’avverarsi del casus belli è una ipotesi niente affatto remota. La forza pervasiva dell’ineluttabilità del conflitto e del riarmo attraversa anche associazioni e movimenti cattolici che hanno faticato a seguire l’esempio di papa Francesco..
Nonostante il richiamo costante alla “pace disarmata e disarmante”, una parte dei commentatori non disperano nell’attesa di un cambio di direzione da parte di papa Leone XIV che, invece, tra la notte di Natale e la festività di santo Stefano 2025 ha inviato messaggi sempre più chiari in materia di pace riconoscendo che «chi oggi crede alla pace e ha scelto la via disarmata di Gesù e dei martiri è spesso ridicolizzato, spinto fuori dal discorso pubblico e non di rado accusato di favorire avversari e nemici».
Tra gli autori citati nella Nota della Cei non poteva mancare Daniele Menozzi, professore della Normale di Pisa che molto ha approfondito sulla questione controversa del rapporto tra Chiesa e guerra.
Abbiamo perciò chiesto all’autorevole studioso un parere su alcuni punti emersi dal documento della Cei.
Non solo nel celebre appello di Benedetto XV lanciato nel 1917 per porre fine al primo conflitto mondiale, ricorre la definizione della guerra come inutile strage? Esistono guerre utili?
Non so chi ai nostri giorni ancora ricorra alla categoria di “utilità” per giustificare una guerra. Nella Federazione russa la guerra contro l’Ucraina è presentata come “santa”, con un ritorno all’uso della fede cristiana per la sacralizzazione della violenza bellica che sembrava confinato al passato. Forse si può vedere un’allusione all’”utilità” della guerra in una frase della recente National Security Strategy dell’amministrazione Trump, in cui si afferma che «vogliamo reclutare, addestrare, equipaggiare e schierare l’esercito più potente, letale e tecnologicamente avanzato del mondo per proteggere i nostri interessi, scoraggiare le guerre e, se necessario, vincerle in modo rapido e decisivo, con il minor numero possibile di vittime tra le nostre forze». Ma anche in questo caso, la guerra rientra, in fondo, in una fattispecie di legittima difesa: dunque, alla fin fine, la categoria in gioco non è quella della “utilità”, ma della “giustizia”.
La “guerra giusta” non è ancora un tema ricorrente usato per giustificare l’uso delle armi chiamando in gioco il magistero cattolico?
La Chiesa per più di un millennio ha elaborato la dottrina della “guerra giusta”, rendendone le condizioni via via sempre più stringenti. Di recente papa Francesco ha completato il cammino, gridando “Non esistono guerre giuste”, e proponendo la nonviolenza attiva come stile di un credente che voglia seguire l’insegnamento del Vangelo. Poi, davanti al moltiplicarsi di guerre di legittima difesa – che costituiscono il paradigma esemplare per un ricorso alle armi eticamente giustificato – ha ripiegato sulla esigenza di rivedere la dottrina tradizionale.
Se, come dice la Commissione europea, la Russia è il nostro “nemico esistenziale” e Putin viene descritto come nuovo Hitler, come si fa a criticare, come fa la Nota, il piano di riarmo della von der Leyen?
A me pare che non ci siano molti dubbi sul fatto che l’attuale scenario planetario si configuri sotto la forma di “imperi” retti da autocrati, di cui Putin è il modello. Putin non è Hitler, ma ha ripetutamente violato il diritto internazionale con il ricorso alla violenza delle armi e non nasconde la volontà di rovesciare le “decadenti” democrazie rappresentative dell’UE. In questa situazione mi pare che la CEI si muova su due piani. Da un lato mira ad educare alla nonviolenza, in modo che le comunità ecclesiali si preparino ad organizzare una resistenza senza armi che sia in grado di rispondere efficacemente alle eventuali aggressioni militari.
Ma la pedagogia della nonviolenza richiede adeguata preparazione e molto tempo, a causa del ritardo con cui la Chiesa ha cominciato ad avvicinarsi a questo modello di risposta alla guerra. Quindi, dall’altro lato, davanti a minacce incombenti, la Cei ritiene che non sia illecito riarmarsi: in via temporanea, in attesa che i credenti siano in grado di rispondere al male dell’ingiustizia della guerra, senza ricorrere al male delle armi. Che le democrazie europee siano sotto attacco, non lo vedono solo coloro che non guardano la realtà. Se questo attacco diventa militare (e Putin lo può fare: alcuni esponenti del suo regime lo teorizzano apertamente) e la resistenza nonviolenta non è pronta, cosa facciamo? Rinunciamo alle nostre libertà così duramente conquistate?
Ma il piano del Rearm Eu interviene in uno scenario dove gli Stati europei già spendono quanto la Cina e più della Russia, ma in maniera non coordinata e in competizione tra le stesse aziende di armi dei Paesi Nato. E poi gli Usa pongono l’obbligo di acquistare le loro armi anche per le forniture all’Ucraina. Non ravvisa il rischio della paura che ci rende utili idioti degli interessi del complesso militar industriale denunciato più volte da papa Francesco?
L’attuale condizione delle relazioni internazionali impone all’Unione europea un ripensamento sulle forze di difesa che potrebbe mettere in campo davanti ad attacchi sotto forma di guerra ibrida o come deterrenza per eventuali minacce militari. Il modo in cui lo si sta pensando e realizzando – cioè la totale indipendenza di ciascun membro dell’Unione, affidando il coordinamento alla NATO – risulta non soltanto sprovvisto di ogni reale efficacia per l’attuazione di un reale disegno strategico di difesa europea nel breve-medio periodo, ma appare soprattutto funzionale, come il magistero di papa Francesco ha ripetutamente ricordato, alla crescita dei profitti delle aziende del complesso militar-industriale.
Del resto il comune obiettivo perseguito da Federazione Russa e Stati Uniti è proprio la dissoluzione dell’Unione non solo per ragioni politiche (la sostituzione di un modello autocratico alla democrazia liberale), ma anche, e direi soprattutto, per ragioni economiche: le economie singoli Stati sono preda assai facile per le colossali aziende degli imperi. Si pone quindi con urgenza la questione dell’acquisizione di una capacità decisionale da parte dell’Unione in materia di difesa comune. Quanti, in Europa, si oppongono all’eliminazione del diritto di veto o si aggrappano alla regola dell’unanimità, anche se si nascondono sotto la retorica dell’interesse nazionale, in realtà perseguono obiettivi che nulla hanno a che fare con i reali interessi degli odierni abitanti del Vecchio continente.
Se usiamo il paradigma della guerra contro il nazifascismo come l’unica, se non giusta, almeno giustificata da ragioni estreme, secondo il suo parere siamo oggi di fronte al pericolo dello spirito di Monaco del 1938? [cedimento democrazie verso pretese di Hitler, ndr]
Oggi siamo di fronte ad un obnubilamento della cultura politica liberal-democratica. Come insegna la seconda guerra mondiale, nessuno regala le libertà di un popolo: la democrazia va conquistata e poi mantenuta attraverso una quotidiana lotta politica per rendere le sue regole formali di libertà e di uguaglianza una realtà sostanziale. Per il basso prezzo del gas russo o per partecipare, con la mancia dei servi, agli affari di Trump non manca chi si dice disponibile a rinunciarvi. Se accade, il risveglio sarà amarissimo e probabilmente sarà troppo tardi. Le folle plaudenti che accolsero Mussolini al ritorno da Monaco, si risvegliarono dal comodo sonno nazional-autoritario sotto le bombe degli alleati.
La domanda che continua a dilaniare le comunità cristiane è legata alla guerra in Ucraina, per cui alcuni ritengono non solo legittimo ma doveroso la fornitura di sistemi d’arma e intelligence alle forze armate ucraine dopo l’invasione del febbraio 2022.
Il paradosso è che si grida alla pace perché l’Ucraina ha perso la guerra, dopo che gli Stati Uniti hanno dapprima sostenuto l’Ucraina a resistere militarmente alle pretese russe e poi hanno ad essa negato le armi che avrebbero potuto limitare l’avanzata dell’aggressore e terminare rapidamente il conflitto. Ma questo fa parte delle ideologie che nascondono la realtà. In via di principio si deve dire che la tradizionale dottrina della guerra giusta prevede che il ricorso alle armi sia lecito nella misura in cui occorre ripristinare la giustizia che è stata violata nelle relazioni internazionali. La violazione del diritto compiuta da Putin è evidente. Allora o si ripristina la giustizia attraverso una mobilitazione nonviolenta (conforme al Vangelo) di tutti i cristiani del mondo sensibili alla giustizia, in modo da arrestare efficacemente la violenza bellica dell’ingiusto aggressore oppure come negare all’aggredito il diritto di difendersi e quindi il dovere morale di soccorrerlo?
Anche dopo l’eccidio del 7 ottobre 2023 la diplomazia vaticana ha parlato del diritto di difesa di Israele, che poi si è rivelata tragicamente sproporzionata. Seguendo questa logica che vale per l’Ucraina, come si può negare il diritto di resistenza armata ai palestinesi?
La questione è molto complessa. A mio parere la posizione della Santa sede su Israele è debole, perché condizionata dai rapporti diplomatici. Nessuno può negare il diritto dello Stato d’Israele alla difesa; ma la difesa esercitata dall’attuale governo di Israele dopo l’attacco del terrorismo islamista dell’ottobre 2023 manifesta una evidente sproporzione rispetto all’obiettivo (si colpiscono indiscriminatamente i civili e le strutture sanitarie, assistenziali, religiose). Tuttavia basta denunciare la sproporzione della risposta? A mio avviso no: la giustizia richiede ben altro. Però il solo accenno alla “sproporzionalità” della risposta – per non dire della semplice richiesta di papa Francesco ai competenti organismi internazionali di verificare se a Gaza fosse in atto un genocidio – ha creato problemi nei rapporti diplomatici tra la Santa sede e l’attuale governo di Israele. Evidentemente il mantenimento del rapporto diplomatico è più importante della promozione di una mobilitazione contro un ricorso ingiusto alla forza militare per uno scopo, che bisogna dirlo chiaramente, è di per sé, in via di principio, legittimo.
È quindi legittima la resistenza armata palestinese?
Secondo la dottrina della guerra giusta, se la risposta militare all’aggressione viola le condizioni della giustizia – ed è difficile negare, quanto meno, la mancanza di proporzionalità nell’intervento dell’esercito israeliano in Palestina – diventa automaticamente lecito opporsi con la forza a questa iniqua azione bellica. Nella fattispecie concreta gioca però un altro elemento: l’ideologia di Hamas proclama non solo un generale antisemitismo, ma anche la necessità di cancellare lo Stato di Israele. Dunque, se la resistenza palestinese si identifica con Hamas innesta sulla di per sé legittima opposizione ad un immorale esercizio della violenza bellica alcuni aspetti che, a loro volta, costituiscono una lesione della giustizia: l’antisemitismo è contrario ai diritti umani; la comunità internazionale riconosce il diritto all’esistenza e alla sicurezza dello Stato israeliano.
Da queste considerazioni si può trarre la conclusione che la resistenza palestinese è legittima nella misura in cui, rivendicando il diritto del popolo palestinese a organizzarsi in uno Stato autonomo, si allinea alle posizioni della comunità internazionale nella condanna dell’antisemitismo e nel riconoscimento dello Stato di Israele. Se la resistenza palestinese assumesse questa posizione, avrebbe anche un ruolo importante su un piano più generale: aiuterebbe infatti a chiarire il mero uso politico-propagandistico della categoria di antisemitismo compiuto dall’attuale governo di Israele e renderebbe evidente la distinzione tra lo Stato di Israele e le pratiche politiche neo-coloniali del suo odierno governo.
Come valuta quindi la tesi secondo cui per raggiungere la pace è necessario possedere e incrementare il proprio arsenale di armi fino a quelle nucleari?
Sono legato alla tesi del multipolarismo post-bellico: avvio di un disarmo progressivo e bilanciato sotto il controllo delle Nazioni Unite che abbia come obiettivo finale la distruzione delle armi nucleari; soppressione simultanea del servizio militare obbligatorio in tutti i paesi; introduzione del volontariato per la formazione di un contingente militare necessario al mantenimento dell’ordine pubblico interno agli Stati e allo svolgimento delle funzioni di polizia internazionale sotto la guida delle Nazioni Unite ; istituzione dell’arbitrato obbligatorio per la soluzione delle controversie tra gli Stati, stabilendo precise sanzioni per il paese che ad esso si sottraesse. Le ingenti risorse risparmiate hanno un vasto campo d’impiego a scopi socialmente utili su tutto il pianeta. Ma il mondo di Trump, Putin e Jinping va esattamente nella direzione opposta: imperi che accrescono le armi per la reciproca deterrenza. Se i cristiani cadono nella trappola di fornire una legittimazione etica o religiosa a questa situazione, l’apocalisse dello scontro finale è solo questione di anni o, forse, di mesi.
Ritiene perciò necessario procedere al riarmo come richiesto dalla Commissione Ue per prepararsi allo scontro bellico entro il 2030? Dobbiamo dire ai giovani, come affermato dal comandante dello Stato Maggiore francese, di prepararsi a uccidere e farsi uccidere per difendere i nostri valori?
Mi pare che questa linea sia semplicistica, insufficiente e anche pericolosa. Occorre certo che, nell’attuale situazione geopolitica del mondo, l’Unione europea sia in grado di organizzare una difesa comunitaria (non fatta attraverso l’inefficace e dispendioso potenziamento degli eserciti nazionali, ma attraverso la costruzione di un’effettiva capacità di deterrenza di un suo specifico apparato militare rispetto ad eventuali, anzi tutt’altro che improbabili, minacce ai valori liberal-democratici che il Vecchio Continente, con tutti i suoi limiti, è ormai il solo spazio politico a costudire).
Ma questo impegno alla formazione di una difesa comunitaria deve essere esplicitamente e concretamente accompagnato da una intensa opera di educazione alla pace, mostrando che la si può raggiungere attraverso una mobilitazione della popolazione, a partire dalle giovani generazioni, istruita sulle tecniche di resistenza nonviolenta attiva. Si tratta di uno sforzo pedagogico – in cui le chiese, riattivando una intelligenza del Vangelo adeguata ai segni dei tempi, possono e debbono svolgere un ruolo di primo piano – che non solo avvierebbe la formazione di un’alternativa efficace alla difesa militare, destinata così a progressivamente estinguersi, ma che anche restituirebbe ad un’Europa, ora guardata a livello planetario con sospetto e anche inimicizia per il suo passato coloniale e imperialista, la funzione di punto di riferimento per lo sviluppo civile dell’intera umanità. Si potrebbe anche aggiungere che, sbarazzandosi dell’inutile mito delle “radici cristiane” dell’Europa, il cristianesimo ritornerebbe così ad essere il cuore spirituale di questa sua rinascita civile.