Per quanto riguarda l’Italia, l’argomento ha soprattutto a che fare con il “Progetto Baita”. Sembrerebbe trattarsi di una questione di promozione turistica locale per incentivare la ripresa o lo sviluppo di zone montane. Si tratta, invece, di una nuova “migrazione” ebraica che, questa volta, parte da Israele e approda in Valsesia. La cosa è piuttosto nuova, soprattutto inattesa e, anche, sorprendente.
In effetti, dopo decenni di “ritorno” di comunità ebraiche della diaspora in Israele (aliyah, salita), sembra iniziato un processo inverso (yerida, discesa). Da alcuni anni numerosi gruppi familiari israeliani, ben prima del 7 ottobre 2023, hanno cominciato a guardare alla possibilità di trasferirsi fuori di Israele. Sarebbe, dunque, iniziato un processo di emigrazione dallo stato ebraico verso diversi Paesi del mondo? Forse no, però la guerra degli ultimi anni ha provocato un’accelerazione significativa di questo processo.
In questo contesto, parliamo di un progetto specifico, che coinvolge una zona altrettanto specifica della nostra penisola. Tutto parte da un ebreo italiano, Ugo Luzzati, nato a Genova dove è cresciuto ed ha studiato. Dopo aver adempiuto agli obblighi militari, ha deciso il trasferimento in Israele. Durante i trentotto anni della sua permanenza in quella terra, Luzzati era solito trascorrere periodi di vacanza e distensione in Valsesia, dove due anni fa ha deciso di stabilirsi definitivamente. Dunque, un emigrato e un immigrato, ma soprattutto l’ideatore del “Progetto Baita” a cui hanno aderito già molte famiglie, di cui alcune decine si sono stabilite ora a Varallo e dintorni. Un fenomeno assolutamente inedito per il nostro Paese e per le valli alpine, che non avevano ancora conosciuto una presenza di comunità ebraiche come è stato per Roma, Venezia, Livorno, Firenze, Milano e altri centri della nostra penisola.
Il Progetto Baita ha un significato importante. Qui l’italiano e l’ebraico tradiscono una sorprendente vicinanza. Sappiamo che la parola ha per noi italici a che fare con una casa di montagna: ci sono baite spartane ma altre molto curate e di grande eleganza. La parola è comunque vicina all’ebraico bàyit, che significa appunto casa. Nel titolo del progetto, bàyit è stato unito all’abbreviazione ita, che indica la nostra penisola. Dunque, “casa in Italia” o anche “Italia come casa”, un invito e una prospettiva nuova che Luzzati intende offrire a ebrei che, nell’attuale momento politico di Israele – cominciato ben prima dell’attuale conflitto con Hamas –, guardano concretamente alla possibilità di emigrare, un processo ben diverso da quello iniziato agli albori del secolo scorso con il ritorno verso la “Terra promessa”, verso la terra di Israele.
Negli ultimi due anni sono una ottantina le famiglie ebree che si sono trasferite in Valsesia, ma i soci del Progetto Baita sono già più di 400. Un esempio di iniziativa e integrazione con la gente della zona, che apprezza questa novità. Il processo migratorio verso Varallo e i centri circostanti è avvenuto a piccole ondate. Questo ha permesso un inserimento soft nel tessuto sociale locale, caratterizzato da una natalità molto bassa e, allo stesso tempo, anche da un progressivo spopolamento, soprattutto da parte delle giovani generazioni. I nuovi arrivi si inseriscono, quindi, in un contesto che potrebbe aprirsi ad un futuro più roseo.
Fra l’altro, Luzzati è molto positivo nella sua valutazione del processo e mette in evidenza, soprattutto, la capacità di accoglienza della popolazione locale. «Tutto questo progetto, queste grandi cose che sono state realizzate negli ultimi anni sono state possibili in questo posto particolare, perché Varallo, anche prima che arrivassero gli israeliani, è sempre stata una cittadina aperta agli stranieri». In effetti, da tempo sono arrivate qui anche altre comunità, risultato di diversi processi migratori provenienti dal Sud America, dall’Africa e, negli ultimi anni di guerra, anche dall’Ucraina. Non va sottovalutato, poi, il fatto che le comunità montane e prealpine della zona, sono state loro stesse protagoniste di processi di emigrazione, soprattutto verso la Francia. Questo ha formato la gente del posto ad una sensibilità verso lo “straniero” e, pur nella riservatezza della gente di montagna, all’accoglienza.
Nonostante tutto questo, si sta lavorando con impegno per favorire il processo di inserimento delle famiglie arrivate da Israele e lo si fa privilegiando l’educazione e la formazione. Interessante, per esempio, l’iniziativa di aprire una scuola di ebraico per la popolazione già residente. I risultati sono stati lusinghieri e si è recentemente dato inizio a un secondo corso. Ma c’è di più. A fronte del processo di spopolamento che, oltre ad altri aspetti, aveva svuotato le aule delle scuole locali, le famiglie arrivate, quasi tutte con adulti fra i 30 e i 50 anni di età, hanno contribuito a far sì che si realizzasse un notevole aumento della popolazione scolastica, evitando quello che sembrava il destino ineluttabile di alcune scuole: accorpamenti di classi, o addirittura la chiusura.
Da un punto di vista professionale, i nuovi arrivati sono quasi tutti laureati e, preferibilmente, hanno mantenuto un rapporto lavorativo in Israele, prestando servizio da remoto. Inoltre, medici e infermieri hanno potuto approfittare dell’endemica mancanza di personale sanitario nelle zone montane e delle facilitazioni per laureati in medicina all’estero di prestare servizio nel nostro Paese con una deroga alla legislazione, che prevede ovviamente il riconoscimento dei titoli ottenuti all’estero.
In una intervista rilasciata al sito Settimana News, (https://www.settimananews.it/societa/da-israele-a-varallo/), Luzzati spiega anche con maggiori dettagli le motivazioni che portano a questi fenomeni di re-emigrazione da Israele. L’idea di emigrare da Israele, infatti, è tutt’altro che scontata. «Fino a tre anni fa le persone che emigravano erano considerate molto male dai familiari, dai parenti, dagli amici. La gente si vergognava di coloro che pensavano di andare via. Oggi invece, dopo quello che è successo con la guerra e lo scontro politico, non è più un tabù parlare di emigrazione da Israele».
Sembra confermare tutto questo anche un recente rapporto presentato alla Knesset che parla di 82 mila israeliani che hanno lasciato il Paese nel 2023. Per il 2024 si pensa che la cifra possa essere analoga. Si tratta di cifre significative se si pensa che nel secondo decennio di questo millennio la media era attorno ai 40 mila emigrati l’anno. Il quotidiano israeliano Haaretz, un mese fa, scriveva che «un alto funzionario del National Insurance Institute ha segnalato un aumento drammatico del numero di israeliani che vivono all’estero e che negli ultimi anni hanno richiesto di annullare il loro status di residenza israeliana, solitamente il segno che non hanno intenzione di tornare nel Paese».