Giorgio Gomel è il presidente per l’ Europa della rete dell’Alleanza per la Pace in Medio Oriente, che conta oggi 180 Ong israeliane e palestinesi che operano in settori cruciali come la difesa dei diritti umani, la protezione ambientale, il dialogo interreligioso e il diritto alla salute.
Il loro impegno ha un costo umano altissimo. Abbiamo già sentito Gomel poco dopo il 7 ottobre 2023, evidenziando il tragico paradosso di attivisti come Vivian Silver e altri membri israeliani di quelle Ong come “Medici per i Diritti Umani” e “Strada verso la Guarigione” (Road to Recovery) che sono stati assassinati in quell’eccidio perpetrato nei kibbutzim al confine con Gaza dove per anni avevano lavorato per la coesistenza, ad esempio trasferendo pazienti palestinesi negli ospedali israeliani. «Il loro assassinio – afferma Gomel – non è solo una tragedia per le vittime e le loro famiglie; rappresenta un evento dal simbolismo devastante: un attacco mirato a chi incarnava la possibilità stessa della coesistenza».
È stato invece emblematico e liberatorio assistere, durante l’Arena di pace di Verona del 2024, all’abbraccio con papa Francesco tra l’israeliano Maoz Inon e il palestinese Aziz Sarah, attivi dell’Alleanza per la pace in Medio Oriente. Entrambi hanno rifiutato la logica della vendetta pur colpiti dalla perdita di familiari stretti a causa del conflitto che insanguina la loro terra.
Giorgio Gomel, ebreo italiano, da sempre impegnato per la pace, è un esponente di spicco di queste organizzazioni della società civile poco visibili sui media ma che, lontano dai palazzi del potere, anche nei momenti che appaiono più disperati, continuano a tessere instancabilmente la tela della coesistenza e del dialogo.
Come si può reagire in uno scenario così cupo, dove violenze e intolleranze legittimano tesi sempre più estreme?
La società civile tenta di opporre un po’ di ratio a questa follia distruttiva perpetrata dai governi, scontrandosi con difficoltà operative enormi. Negli ultimi due anni, il lavoro sul terreno è stato pesantemente ostacolato, al punto che per le ong israeliane e palestinesi è diventato quasi impossibile incontrarsi fisicamente all’interno della regione. Questo le ha costrette a dialogare virtualmente o in incontri organizzati all’estero, come i summit per la pace tenutisi di recente a Parigi sotto il patrocinio congiunto della Francia stessa e dell’Arabia Saudita, un dettaglio geopolitico non trascurabile.
Ma l’attacco del 7 ottobre non è stato organizzato da Hamas anche per sventare l’adesione dei sauditi agli accordi di Abramo, rivelando una strategia ambigua di Riad?
La posizione dell’Arabia Saudita nell’estate del 2023 era in realtà caratterizzata da una notevole cautela. Nonostante le speculazioni esterne, il regno non aveva ancora dato per certa la sua adesione, subordinandola a condizioni precise, tra cui la questione palestinese.
Quale altra iniziativa è in corso?
Il governo britannico ha annunciato l’inaugurazione, prevista per il prossimo marzo, di un “Fondo internazionale per la pace fra Israele e Palestina”. Si tratta di un progetto su cui lavoriamo da anni, modellato sull’esperienza del fondo per la pace in Irlanda del Nord. L’importanza di questo fondo è accentuata dalla sospensione del MEPPA (Middle East Partnership for Peace Act), un imponente fondo americano di ben 250 milioni di dollari per iniziative volte alla coesistenza. Uno dei frutti amari della attuale amministrazione Trump.
Che obiettivo persegue il fondo britannico?
Lo scopo è quello di sostenere finanziariamente e politicamente le iniziative di costruzione della pace e di coesistenza portate avanti dalle organizzazioni per la pace israeliane e palestinesi. Un impegno concreto che si traduce in un riconoscimento politico del ruolo insostituibile della società civile. L’iniziativa non è isolata. C’è il potenziale coinvolgimento di altri Paesi europei come Francia, Germania, Italia, Olanda, ma anche arabi quali Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita, che si sono detti disponibili a sostenere il progetto. Questo allargamento conferirebbe al fondo un peso politico ancora maggiore.
Il 7 ottobre è stato descritto come un trauma senza precedenti per Israele. Come analizza oggi la reazione della società e dell’opinione pubblica israeliana a questo evento?
Mi sembra evidente che siano venuti meno due assiomi nella percezione di sé del Paese: la forza militare e la fiducia nel sostegno dell’opinione pubblica globale. Questo ha generato un profondo e inedito senso di vulnerabilità. Il trauma ha provocato una sorta di “amnesia collettiva”, schiacciando la memoria di oltre cinquant’anni di conflitto, occupazione e trattative. L’orrore del 7 ottobre ha finito per dominare ogni altra considerazione, giustificando una reazione di ritorsione massiccia. Si è diffusa una retorica secondo cui non esisterebbero “gazawi innocenti”, ma un’intera società complice di Hamas, ignorando il fatto che Hamas governa la Striscia imponendo un regime dispotico e militarizzato dal 2007, rendendo quasi impossibile ogni forma di dissenso.
Questa reazione è unanime nella società israeliana?
Tutt’altro. È molto frantumata e lacerata. Basta pensare ai mesi di manifestazioni di massa contro la riforma giudiziaria e le spinte autoritarie che hanno preceduto il 7 ottobre 2023, e le costanti proteste del sabato sera per la liberazione degli ostaggi e la ricerca di un accordo. Segnali di un malessere profondo che presenta sintomi inquietanti. Fra questi l’aumento dell’emigrazione: circa 80.000 israeliani hanno lasciato il paese nel 2024, e una cifra simile è prevista per il 2025. A partire sono soprattutto accademici, medici, gente che lavora nell’high-tech, giovani con figli piccoli. Cioè in larga parte segmenti di opinione oppositori del governo attuale. Questo esodo volontario acuisce il pericoloso slittamento politico-demografico che vede restare e rafforzarsi il numero degli elettori di figure estremiste come Ben-Gvir e Smotrich, mettendo in discussione il futuro stesso di Israele.
Quali sono le proposte politiche dell’Alleanza per la Pace in Medio Oriente?
L’Alleanza per la Pace non promuove una piattaforma politica rigida. Il suo obiettivo primario è sostenere il tessuto della società civile, concentrandosi sul lavoro essenziale di riconoscere l’umanità dell’altro e rifiutarne la disumanizzazione. È un approccio che pone le basi umane e culturali indispensabili per qualsiasi soluzione politica futura.
E sul piano personale intravede una soluzione possibile a tale scenario tragico?
Sono vicino alle soluzioni di tipo confederale, promosse da movimenti di base israelo-palestinesi come A Land for All. Questo movimento, sostenuto da figure come l’ex viceministro degli Esteri israeliano Yossi Beilin e oggi guidato da due co-direttrici, una israeliana e una palestinese, si fonda su alcuni principi chiave che mi sembrano ragionevoli Il punto di partenza resta il riconoscimento di due Stati sovrani per garantire il diritto all’autodeterminazione di entrambi i popoli. Data la profonda interconnessione territoriale, economica e sociale, i due Stati dovrebbero poi dar vita a un assetto confederale.
Una prospettiva che appare difficile da realizzare…
È una soluzione potenzialmente “utopica” ma possibile nel medio periodo. Un certo numero di coloni israeliani potrebbe risiedere nel futuro Stato palestinese come cittadini di Israele, e allo stesso modo un numero definito di palestinesi potrebbe risiedere in Israele pur essendo cittadini della Palestina. Secondo alcuni specialisti, tuttavia, la soluzione “tradizionale” a due Stati sarebbe ancora tecnicamente fattibile, a patto di realizzare uno scambio territoriale su base paritaria pari a circa il 4% del territorio.
Cosa si può fare perché la giusta indignazione per la sofferenza indicibile di Gaza non alimenti la pulsione antisemita sommersa e irrisolta presente nelle nostre società?
Come ho detto tante volte, esiste da una parte la falsa idea che la difesa di Israele o la battaglia contro l’antisemitismo esigano sempre e comunque il sostegno acritico alle scelte dei suoi governi. Nel rapporto con Israele gli ebrei in Italia, così come altrove, sono uniti nella difesa del suo diritto irrinunciabile di esistenza come popolo e come stato, in pace e sicurezza, riconosciuto e integrato nella regione, ma si interrogano angosciosamente e spesso si dividono aspramente circa le azioni dei suoi governi. Il problema principale è la tendenza in molti osservatori esterni a confondere il governo di Israele con lo Stato, con il suo popolo e, infine, con tutti gli ebrei della diaspora. Questo meccanismo porta a trattare intere comunità come “conniventi e corresponsabili” delle azioni di un esecutivo specifico. Considero penosa, assurda la richiesta agli ebrei di “dissociarsi” pubblicamente dalle politiche israeliane. Il Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano ha riscontrato un aumento vistoso di episodi di antisemitismo anche in Italia negli ultimi due anni, molti dei quali non vengono nemmeno denunciati. Come molti giustamente osservano, l’antisemitismo è un prodotto malato degli antisemiti, non delle azioni del governo di Israele. È fondamentale separare le azioni di un governo specifico, per quanto democraticamente eletto, dall’identità collettiva di un intero popolo, in Israele così come fra gli ebrei nel mondo. Dobbiamo sempre da tutte le parti rigettare la disumanizzazione del “nemico”, riconoscere pur con fatica le ragioni e i diritti dell’altro.