Mai nessuna storia mi ha mai segnato come quella di Alberto. Perché ci sono malattie che assediano il corpo, lasciando intatta la cittadella della mente. E poi c’è l’Alzheimer. Non è una malattia; è un ladro di anime, un fantasma che entra in casa tua e, notte dopo notte, ti ruba i ricordi dal comò, le fotografie dal cuore, fino a lasciarti straniero nel tuo stesso corpo.
Alberto non era un vecchio. Era un uomo di cinquant’anni, con le mani ancora capaci di creare la dolcezza. Lui e sua moglie, per una vita, erano stati gelatieri in Germania. Immagino le loro giornate profumate di vaniglia e cioccolato, le risate condivise mentre allevavano i figli tra un cono e una coppetta. Avevano costruito il loro sogno con fatica, mattone dopo mattone, per poi decidere di tornare a casa, in Italia, per godersi un tramonto sereno, tinto dei colori caldi della pensione.
Ma il loro tramonto fu inghiottito da una nebbia fitta e gelida. Iniziò come un gioco crudele: le parole si nascondevano, i nomi svanivano. Poi, la nebbia si prese i volti. Il viso di sua moglie, che per trent’anni era stata la sua unica mappa, divenne un territorio sconosciuto. La loro casa, un labirinto di cui non conosceva l’uscita. Alberto vagava in questo nuovo, terrificante mondo, con gli occhi sbarrati di un bambino perduto, a volte diffidente, altre volte infiammato da una rabbia senza nome.
Quando sua moglie lo condusse da noi, presso l’ufficio di servizio sociale per chiedere aiuti, di Alberto era rimasta solo un’eco lontana. Era un uomo murato vivo nel silenzio, il suo pensiero un affresco che si sgretolava giorno dopo giorno. La diagnosi fu una sentenza pronunciata sottovoce: Alzheimer precoce. “Precoce”. Una parola così ingiusta, inaccettabile per sua moglie, che ora si trovava a vegliare un estraneo che indossava il volto dell’amore della sua vita. L’Alzheimer non ti cancella soltanto; ti costringe ad assistere al tuo stesso annullamento. È un lungo, straziante addio a te stesso.
La loro casa era diventata un teatro dell’assurdo. Vivere con Alberto era come danzare con un’ombra imprevedibile. Lavarlo era un atto di violenza, farlo salire in auto un rapimento. Sua moglie era prigioniera di un amore che non trovava più riconoscimento, sentinella di un faro la cui luce si era spenta per sempre.
Venne da noi con la disperazione silenziosa di chi ha esaurito tutte le preghiere. Cercammo un appiglio, un modo per darle ossigeno. Un’operatrice al mattino, un centro diurno, uno specialista del centro UVA a sostegno del caso. Un fragile tentativo di arginare un fiume in piena.
Ma il fiume ruppe gli argini in un pomeriggio grigio. Il telefono squillò, e la sua voce era un grido strozzato dal terrore. «Venite, vi prego… mi vuole picchiare!».
Corremmo, io e la mia collega Resy Maria, mentre il medico di base ci raggiungeva. La porta si aprì su una scena di panico puro. Alberto, con gli occhi iniettati di una furia che non gli apparteneva, brandiva un pezzo di legno. Sua moglie, rannicchiata in un angolo della cucina, era l’immagine stessa della paura.
Il medico fu un lampo. Un’iniezione, un gesto rapido che spense quell’incendio folle, e Alberto si accasciò, scivolando in un sonno artificiale. Restammo lì, nel silenzio irreale che segue la tempesta. Cercammo parole di conforto, le solite, inutili frasi. «Ci vuole tanta pazienza, signora…».
Lei alzò il viso, rigato da lacrime che non avevano più nulla di umano. «La pazienza? – sussurrò, con una voce spezzata – E dove si compra? Chi la vende?».
In quel momento, ci sentimmo piccole, impotenti. Di fronte a quel dramma, ogni parola era polvere. L’Alzheimer ti uccide due volte. La prima, quando lo sguardo di chi ami ti trapassa e chiede: «Chi sei? Cosa vuoi da me?». La seconda, quando il suo cuore smette di battere.
L’Alzheimer è una morte progressiva e irreversibile di quelle minuscole stelle che illuminano la mente. A poco a poco i fili sottili della comunicazione cerebrale si spezzano, la funzione associativa si dissolve come nebbia. Sparisce il nome delle cose e le loro funzioni, spariscono i visi conosciuti, tutto perde identità. Il passato si mescola al presente in un flusso confuso. I ricordi si perdono, la mente si smarrisce. Questa è la devastazione più atroce per un essere umano. L’Alzheimer non distrugge un organo, distrugge la persona. Ti ruba la mente, ti strappa ogni conoscenza, ogni affetto, ogni emozione, riducendo l’esistenza ad un lungo estenuante addio.
Mentre Alberto veniva adagiato su una poltrona, io e Resy Maria capimmo che in quel buio restava una sola luce: il linguaggio segreto del corpo dove le parole non arrivano. Il tono della voce, lo sguardo, il calore di una mano, era l’unico mezzo di contatto che potevano tentare. Ci avvicinammo, cercando di comunicare oltre il muro della malattia per offrire un nostro misero sostegno. Un sorriso, una carezza gentile.
E fu allora che accadde il miracolo. Un lampo, un squarcio improvviso nella nebbia. Alberto aprì gli occhi, ed ebbe uno di quei rari momenti di lucidità, di “lucentezza”. Per un istante, uno soltanto, la nebbia si diradò, e l’uomo che era stato riemerse da quell’abisso. Guardò sua moglie. I suoi occhi, fino a un attimo prima opachi e persi, brillarono di una luce antica, colmi di un dolore così puro da sembrare acqua di mare. In quell’istante, una lacrima gli scese lungo la guancia. Non era una lacrima di disperazione, ma qualcosa di diverso. Era una perla, imperfetta e preziosa, nata dal dolore di aver recato dolore. Un ultimo, lucente frammento di un tesoro che credevano perduto per sempre.
E da quella profondità, affiorarono due parole, un sussurro che conteneva una vita intera: «Mi spiace – disse –, perdonami».