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La “giornata del no ai re” negli Usa

di Chiara Andreola

La serie di manifestazioni per il “No Kings Day” di sabato 18 ottobre segna il ritorno delle proteste di piazza su vasta scala negli Stati Uniti. Che non si erano in realtà mai del tutto sopite, in un frangente storico segnato da profonde divisioni e contraddizioni nella società e nella politica d’oltreoceano

Un’immagine delle manifestazioni per il “No Kings Day” a Los Angeles, contro le politiche del presidente Donald J. Trump. EPA/JILL CONNELLY

Oltre 2700 manifestazioni a livello nazionale, con circa 7 milioni di partecipanti totali stimati: è stato il “No Kings Day”, la “Giornata del no ai re”, che dopo una serie di proteste organizzate su scala più ridotta lo scorso giugno segna il grande ritorno delle proteste di piazza a livello nazionale e organizzato negli Usa. Ad organizzarle è stata la rete “No Kings”, un insieme di organizzazioni della società civile, che intendono opporsi alle politiche di Trump. Il riferimento ai “re” vuole essere per l’appunto una denuncia dei metodi autoritari da lui utilizzati, in particolare per quanto riguarda le politiche sull’immigrazione, sull’istruzione, sull’utilizzo delle forze militari nelle città per − veri o presunti − problemi di ordine pubblico, e sui licenziamenti nella pubblica amministrazione. Nel mirino anche la “Big beautiful bill”, la “Grande e bella legge”, come Trump ha definito l’ultima finanziaria, che prevede tra le altre cose pesanti tagli a sanità, istruzione e ricerca. A fungere da detonatore per le proteste è stato poi lo “shutdown”, ossia il parziale blocco dei servizi federali in vigore ormai da quasi tre settimane, in virtù della mancata approvazione della legge in Parlamento.

Le maggiori manifestazioni si sono tenute naturalmente nelle grandi città, in particolare New York, Los Angeles, San Francisco, Chicago, Atlanta e Boston; ma si è trattato appunto di un’iniziativa diffusa, dove anche poche centinaia di persone si sono ritrovate nelle borgate con cartelli e striscioni per esprimere pacificamente − gli unici incidenti degni di nota, ma comunque limitati, si sono registrati a Los Angeles − il proprio dissenso.

Stando a quanto riferisce il New York Times, questa volta si è vista una partecipazione rinnovata e più trasversale, unendo persone di qualsiasi età e provenienza sociale; raccolte più che in passato attorno non tanto ad uno o più temi prettamente politici, ma alla richiesta al governo di «mostrare un minimo di umanità» su tutti i fronti. Anche il Washington Post riferisce di atmosfere festose, «da parata», in riferimento ai numerosi gonfiabili e sorta di carri allegorici che hanno caratterizzato la scelta di molti di usare l’ironia come arma; ironia a cui ha peraltro risposto la stessa Casa Bianca, ma con assai meno gusto, diffondendo sui propri social fotomontaggi di Trump con la corona mentre una portavoce rispondeva «Who cares?», chi se ne importa, ai giornalisti che le chiedevano un commento sulle manifestazioni − a noi italiani viene spontaneo un pensiero al contrario “I care” di don Milani, ma tant’è.

Va peraltro detto che, a onor del vero, i sondaggi sulla popolarità di Trump − come fa notare lo stesso New York Times − non hanno subìto ultimamente variazioni significative: il che conferma una volta di più la profonda divisione della società americana, in cui esiste un dissenso molto vasto ed organizzato al governo in carica.

In ciascuna città le proteste hanno poi assunto una declinazione particolare in virtù della situazione specifica. A Portland, in Oregon, l’attenzione è stata portata soprattutto sulla controversa decisione di Trump si dispiegare in città la guardia nazionale, allo slogan di “Questa non è una zona di guerra”; a Los Angeles il tema caldo è l’immigrazione, mentre cresce l’insofferenza verso quelle che appaiono come vere e proprie “retate” dell’Ice (il corpo di polizia che si occupa dell’immigrazione) contro persone anche solo sospettate dai poliziotti stessi di essere immigrati irregolari; in molte città poi, specie quelle più multietniche, si è protestato anche contro la volontà dell’amministrazione attuale di imporre la propria idea unilaterale di America, bianca e cristiana, in un Paese che è invece storicamente caratterizzato dalla presenza di tanti popoli e tanti credo religiosi.

Secondo Usa Today, queste tematiche più “trasversali” sono appunto state capaci di portare in piazza anche persone che non vi erano mai scese prima; anche per contrastare la paura che persino il diritto di manifestare pacificamente possa essere nei fatti limitato da queste politiche autoritarie. Di qui l’enfasi, che molti commentatori definiscono inedita, sulla nonviolenza delle proteste, provata appunto dall’intensità degli scontri con la polizia sorprendentemente bassa per eventi di questa entità.

Secondo Npr, ci sono tre punti fondamentali da tenere a mente rispetto al “No Kings Day”. Il primo è la volontà di manifestare per «proteggere l’America» e la sua democrazia, percepite come in pericolo ad un livello più vasto della singola persona di Trump e delle sue politiche; poi il fatto che i repubblicani, a dispetto del “chi se importa” presidenziale, abbiano comunque fatto sentire la propria voce contraria alle proteste − segnale che invece non è del tutto vero che la cosa non importi ad alcuno; e infine lo svolgersi del tutto in un’atmosfera pacifica di festa, ottimismo e speranza.

«Ultimamente le notizie sono state un continuo susseguirsi di terribili sviluppi − ci scrive un manifestante dalla California −. Ma sappiate che le proteste pacifiche sono vive e vegete in molte, moltissime comunità degli Stati Uniti. Qui è stata organizzata una manifestazione appositamente da e per gli “anziani” (in genere over 60). Nessuna violenza. Un po’ di musica dal vivo. Molte auto di passaggio suonavano il clacson in segno di solidarietà. Una troupe televisiva locale aveva un drone in volo e ha dichiarato che c’erano più di 700 manifestanti solo nel nostro piccolo quartiere. C’è ancora speranza…».

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