Se qualcuno dicesse ancora che il cinema italiano è in crisi, basterebbero tre film per dargli coraggio. Perché, in effetti non è così. È neo-neorealismo? Forse, si potrebbe parlare di uno “sguardo sincero e amoroso” sulla vita.
La vita va così dice nel suo film – che ha aperto la Festa – Riccardo Milani. È la storia vera di un pastore sardo, Efisio (interpretato da Giuseppe Ignazio Loi, 84 anni), semianalfabeta e che parla solo in sardo stretto. Si rifiuta di vendere la casa e la terra ereditata dai padri all’azienda di costruttori milanesi – un tempo attenta all’etica, ora solo ai soldi -, i quali vorrebbero costruirvi un centro turistico.
La zona è bellissima, spiaggia candida, mare limpido: il pastore ci vive con le sue mucche, la figlia che lo va a trovare dal paese ogni giorno – una perfetta Virginia Raffaele -, ed è un mondo arcaico semplice, ma assediato dalla speculazione edilizia che attraversa tutta la Sardegna.
Il boss milanese (un grande Diego Abatantuono), energico e spavaldo, manda il suo braccio armato, l’ex muratore palermitano ora capocantiere (Aldo Baglio, di una comicità irresistibile), a convincere il vecchio a vendere, offrendo fino a 12 milioni di euro. Il paese si solleva contro il pastore che resiste alle pressioni di ogni genere, anche cattive e ridicole, come la processione delle personalità (sindaco, carabinieri, vescovi…) a chiedergli di cedere: un balletto comico deliziosamente perfido. Lui e la figlia lottano contro tutto, anche contro i familiari, contro le ruspe che violentano la bellezza della natura intorno. Ci vorrà un giudice inflessibile, una sarda decisa (Geppi Cucciari) a fargli vincere la causa contro l’imprenditore milanese. Sarà tutto felice come la danza con cui si chiude il film? Chissà, perché la figlia del milanese è una ragazza cinica, non mollerà la presa.
Questo il soggetto, una storia d’amore per la propria terra, per la famiglia, per le radici che il regista affronta di petto, con un sano umorismo e un realismo sincero, come è accaduto per il film precedente Un mondo a parte su un villaggio abruzzese assediato dal turismo ma che si va spopolando.
Sul filo di una storia scritta con evidente felicità narrativa e di un cast attoriale perfetto, il film sottolinea la necessità di un capitalismo etico, la difesa delle radici e della natura, il bisogno di una presa di coscienza (come avviene nel capocantiere siciliano) sulla distruzione dei valori e su una terra, la Sardegna, vittima troppo sfruttata dal capitalismo e vittima dell’emigrazione.
L’ostinata resistenza del vecchio si fa invito alla gente di rimanere a coltivare la propria terra, ad amarla anche oggi,a difenderne la storia e la natura. Un’ottima apertura alla Festa.

Il cast e il regista del film “Per te” alla Festa del Cinema di Roma ANSA/FABIO FRUSTACI
Tra i film presentati brilla Per te, altra storia d’amore, diretta con commozione autentica da Alessandro Aronadio. Vicenda vera, attuale, di un giovane marito e padre affetto anzitempo dall’Alzheimer, assistito con amore dalla moglie e dal figlio undicenne, premiato dal presidente Mattarella per la sua generosità.
La perdita della memoria è lenta ed inesorabile, distrugge i ricordi anche delle persone care. L’uomo vede sfuggirgli la realtà, gli affetti ed è dramma. La moglie (Teresa Saponangelo) gli sta vicina a fatica, il figlio (il bravissimo Javier Francesco Leoni) intuisce con l’amore puro e innocente il dramma paterno. E mentre il padre esita a dirglielo – lo farà durante un incontro -litigio col fratello -, il bambino lo meraviglierà perché l’ha già intuito vedendogli fare “cose strane”: insegnargli a guidare la macchina, a farsi la barba, fargli vedere la casa dei nonni…
È una crescita lenta nell’amore: il bambino che fa da padre e da madre al padre e lui che si lascia amare dal piccolo e dalla moglie.
Ci sono momenti forti come quando l’uomo in vestaglia si smarrisce per strada e viene riaccompagnato a casa da un coinquilino con cui prima i rapporti erano freddi: la compassione esiste, allora. L’uomo ha accettato la malattia che il film descrive delicatamente ma anche crudamente, nel rapporto difficile con la moglie, nello smarrimento progressivo, nel finale sospeso. Molto intensa l’interpretazione di Edoardo Leo, più maturo del solito, coinvolgente anche perché frutto di un vissuto personale. Un film vero, spiazzante e dolcissimo.
Ed è amore in Tre ciotole, diretto dalla spagnola Isabel Coixet con due formidabili attori, Alba Rohrwacher ed Elio Germano, tratto dall’ultimo romanzo di Michela Murgia.
La vicenda è quella di Marta, lasciata dal compagno dopo sette anni, e che ora si trova sola, spaesata, chiusa, disordinata. Libera? Forse. Lui, che fa il cuoco, non la cerca. Arriva la malattia: ma dopo il terrore e il rifiuto, lei comprende cosa sia l’amore, un donare senza pretesa, e le si cambia la vita. Si apre gradualmente alle persone. Diventa generosa, socievole, distaccata dall’ex compagno. Il dolore la rende in qualche maniera superiore, aperta, universale. Marta comincia a fare cose che saranno il suo testamento, evita rapporti superficiali, al timido collega di filosofia che la ama dona un bacio, gli affida due allieve problematiche, incontra l’ex compagno: gli chiarisce la differenza tra compassione ed amore, e l’abbraccio sulle sponde del Tevere è finalmente liberante e sincero. Un momento stupendo del film. Sino al finale – non si mostra la morte (viene sottesa, è la “paura” attuale di vederla?) – dove ognuno prende dei regali dalla casa di Marta,come lei ha voluto.
Forte e delicato, iniziato con un litigio della coppia, si conclude con gesti di amore. Recitato con amore, essenziale, autentico, e perciò commovente.