Tanti anni fa, un caro amico e collega giornalista mi ha insegnato che quando si pensa male non è possibile fare il bene o quanto meno improbabile se non frutto della casualità. Per essere tale, il bene ha bisogno del sostegno del vero.
La figura manzoniana di Donna Prassede è un esempio tipico di incapacità di produrre il bene, proprio a partire da ragionamenti annebbiati da preconcetti e pregiudizi. Pur animata da buone intenzioni, questa donna si trasformerà in uno strumento di disagio nei confronti di Lucia, un’anima già martoriata dai fatti che Prassede non solo non conosce ma nemmeno si prende la briga di conoscere. Lei ha già “capito” tutto. Il suo destino è però quello della sterilità, dell’irrilevanza. Portata via dalla peste insieme a tanti, il giudizio che Manzoni emette su di lei è negativo quanto lapidario: «…quando si dice che era morta è detto tutto».
Bernard Lonergan, il filosofo che ha forse meglio indagato il processo di discernimento etico – anzi il processo del conoscere umano, sia quello scientifico che quello relativo a qualsiasi nozione –, ci conferma che per produrre il bene occorre intanto prestare attenzione a ciò che succede, i fatti reali. Si potrà così giungere ad una presa di coscienza intenzionale sul loro significato e le implicazioni che essi hanno, per poi emettere un giudizio di valore e infine agire in modo responsabile a partire da tale giudizio. Ma ciò non può avvenire in pienezza se non insieme agli altri, in modo dialogato e sinfonico.
Cosa vuol dire tutto ciò? Che per Lonergan la gestione del bene dipende dalla comprensione che abbiamo della realtà nella quale siamo immersi, e che il nostro metro morale ha bisogno di comprenderla a fondo onde poter stabilire se qualcosa è un bene o un male. Significa dunque un processo rigoroso, nel quale non ci si accontenta di conoscere in superficie, ne per interposta persona, ma di attendere ai fatti. Non quelli che crediamo siano accaduti, ma quelli che realmente accadono.
Si comprende allora che dietro questo processo, c’è un’analisi critica dei dati a disposizione che non si ferma ai titoli dei giornali e telegiornali, al “si dice”, “mi hanno detto”, “mi pare di aver letto”, “ho trovato su Facebook”… ma ha il coraggio di mettere in discussione l’informazione ricevuta, confrontarla, verificare e districarsi minimamente dalle erbacce delle fake news che le reti sociali spargono a mani piene e dalla manipolazione informativa sempre più evidente.
È semplice? No, diciamolo chiaramente. E per diverse ragioni. Una di queste è alla vista di tutti: l’esercito di analfabeti funzionali è in aumento. In Italia il 48% dei non laureati non è in grado di comprendere un testo complesso o che non tratti argomenti familiari al lettore o semplici.
Attenti! Complesso, non va confuso con complicato. Significa considerare che le risposte a certe questioni abbracciano più dimensioni e queste intervengono simultaneamente. Il cambiamento climatico in corso, non è solo una questione di contaminazione, ma anche culturale, sociale, politica ed economica. Si potrà intervenire efficacemente solo considerando tutti questi fattori, perché viviamo una epoca dove la complessità è la regola.
Ma in Italia l’analfabetismo funzionale è un problema anche per il 17% dei laureati (uno su sei, secondo la OCSE!), che sono nelle stesse condizioni. Il che dovrebbe farci riflettere sulla qualità dello studio nelle università e non solo sulla quantità di persone con in tasca il diploma di laurea.
Cosa comporta un problema del genere? La mancanza di abitudine a utilizzare la nostra razionalità, nutrendoci invece di argomenti semplici, spesso preconfezionati da slogan apparentemente di buon senso. Allora tutto è bianco o nero, a favore o contro, senza tener conto dei contesti e dei vari fattori che intervengono per stabilire la verità delle cose, condizionando i nostri giudizi di valore.
La mancanza di abitudine a verificare la correttezza delle nostre conoscenze suppone l’assenza di uno spirito critico ed autocritico capace non solo di distinguere il vero dal falso, ma anche il bene stesso dal male, ed anche di riconoscere di essersi sbagliati nell’emettere una opinione ma senza conoscenze minime nel merito. Queste persone potranno essere convinte in un batter d’occhio di qualsiasi cosa: che la Terra sia piatta, che l’egoismo è una forma di solidarietà, che i diritti umani sono una fantasia, che la democrazia sia solo ed esclusivamente ciò che dice il mio leader… Il mondo delle idee diventa allora una specie di ipermercato dove ogni conoscenza è all’ingrosso ed a buon mercato e tutto dipende solo se queste fanno o no parte delle mie preferenze.
Non si creda che si tratti di un fenomeno casuale, tutt’altro. Ci sono produttori di questa ignoranza, che non solo non sa, ma nemmeno vuole sapere. Una ignoranza pertanto arrogante, che rifiuta ogni conoscenza contraria alle proprie preferenze ed a sicurezze alquanto superficiali. A chi le mette in discussione affermando altro, basta contrapporre un: questo lo dice lei!
Una candidata alle elezioni argentine ha avuto il coraggio (ce ne vuole!) di affermare che: la purezza consiste che se il presidente dice che questo è bianco, è bianco e se dice verde è verde. Se prima l’ignoranza era una lacuna da colmare, questa tendenza la difende e la esibisce come una virtù. C’è anche chi teorizza che è sano mantenersi ignoranti, perché conoscere vulnera la nostra mascolinità. Non sia mai!
Ma torniamo alla trama occulta di questa ignoranza. Robert Proctor e Londa Schiebinger l’hanno analizzata nel loro libro La produzione dell’ignoranza (Stanford University Press, 2008/Università di Saragozza, 2022), a partire da un concetto attribuito al linguista Iain Boal: l’agnatologia (agnosis in greco significa “non conoscenza”), arrivando alla conclusione che dietro l’agnatologia ci sia un intervento intenzionale e strutturale.
E non è difficile comprendere che una massa ignorante è molto facilmente manipolabile e controllabile… Ma da chi? Da una élite che invece “sa”, non è ignorante ma muove i fili dell’analfabetismo funzionale per condurre i destini politici anche di tutto un Paese. Quanto ciò sia pericoloso per la democrazia è abbastanza visibile.
Ma stiamo attenti, perché la deriva culturale di una massa che si vanta di non sapere, suppone anche che vengano rimesse in discussione le conquiste culturali e sociali ottenute durante secoli ed illuminate dal sapere, dal buon senso e dai valori morali.
Perché proteggere i più deboli? Chi ha detto che siamo tutti uguali? Ci sono razze superiori ed inferiori. La solidarietà è un valore? L’alterità va rispettata e con lei la diversità? E ciò potrebbe capovolgere – se ne vedono i segni – anche gli stessi valori ebreo-cristiani che sono alla base della civiltà occidentale. Ne è testimonianza la domanda per niente ingenua di chi di fronte ai terribili crimini commessi a Gaza anche contro bambini ha opposto: “definisci bambino”.
Che non succeda di trasformarci in una massa di milioni di Donna Prassede, condannati all’irrilevanza… ed all’oblio.