A pochi chilometri da Matera, sulla strada che conduce al Santuario Santa Maria di Picciano, sorge la Masseria “La Fiorita”. Qui la tradizione e la storia della famiglia Castoro si intrecciano con un’attualità fatta di tanti incontri con camminatori, studenti, visitatori, viaggiatori che vengono da tutto il mondo, mantenendo intatta la scelta di vivere in un dialogo rispettoso con la natura circostante che è parte viva e fondante del lavoro della Masseria stessa. Per la quarta storia di Cronache di chi resta abbiamo incontrato Marialaura, che ci ha trasmesso la sua passione sincera per il lavoro che ha scelto decidendo di tornare ad abitare questo territorio.
Qual è la storia della Masseria e com’è organizzato il vostro lavoro?
L’azienda nasce nel 1975 dalla scelta di nonno Vito di dare avvio ad una nuova attività di famiglia e da allora si sono susseguite tre generazioni. In quegli anni la masseria viveva un momento di difficoltà e quindi ci siamo tutti rimboccati le maniche per poter ripartire. L’identità di questo posto è ciò che rimane come cardine di tutto: dal 1988 abbiamo scelto una linea di conduzione biologica, completamente naturale, senza uso di sostanze chimiche, neanche il consentito. Nel corso degli anni abbiamo davvero tenuto fede a questa scelta. Ci piace valorizzare quello che abbiamo nella nostra semplicità, quindi non abbiamo grandi produzioni proprio perché preferiamo dare più valore al piccolo per curare tutto dall’inizio alla fine.
Al momento a lavorare nella Masseria siamo io, il mio fidanzato, mio padre e due operai. Mio padre è una figura sempre presente e di grande ruolo all’interno della “gerarchia” aziendale. Ognuno di noi ha un compito diverso, ma nei periodi in cui un lavoro assorbe più tempo e forze, convergiamo tutti quanti insieme su quella attività.
La cura degli animali è centrale qui in Masseria…
Abbiamo un piccolo gruppo di animali, che custodiamo e alleviamo curandoli come si deve, quindi abbiamo il pascolo libero in rotazione. A seconda dei diversi periodi dell’anno abbiamo un latte che rispecchia il territorio e le stagioni che viviamo qui in collina. Abbiamo un piccolo caseificio aziendale all’interno del quale trasformiamo solo ed esclusivamente il latte delle nostre vacche brune alpine, al momento ne abbiamo tre, con un toro felice perché può godere di tanta compagnia. Gli altri animali sono qui in masseria per biodiversità, perché penso e credo fortemente che l’anima di un posto come un’azienda agricola passi attraverso gli animali che lo abitano. Quindi abbiamo capre, pecore, galline, conigli, cavalli, maiali, da qualche giorno anche delle tartarughe, e sono loro che tengono vivo questo posto e danno anima a questa collina.
Spesso questo territorio è minacciato da incendi devastanti: in che modo cercate di far continuare a fiorire questa collina?
Siamo molto attenti alla biodiversità, infatti qui in collina abbiamo specie autoctone che negli anni abbiamo voluto preservare e soprattutto mio padre ha voluto arricchire il territorio con questi alberi, con queste piante, che sono una parte vitale e fondamentale del territorio che molto spesso viene intaccata. Viviamo purtroppo in un periodo in cui mani incoscienti danno fuoco ai campi, senza considerare la gravità di un gesto del genere. Soprattutto durante il periodo estivo viviamo questa tensione che viene dal pericolo che le fiamme arrivino in masseria e negli anni purtroppo abbiamo subito anche noi dei danni dovuti a queste mani incoscienti. Proprio per questo, durante il periodo di fermo vegetativo delle piante, non ci stanchiamo mai di piantare. Questo perché i tempi umani sono diversi dai tempi naturali: dobbiamo capire che un albero non cresce come noi in due o tre anni, ma ci possono volere cinquanta, sessanta, cento anni per poter mettere delle radici forti e poter essere saldi su quel terreno. Ecco perché un’azione fatta oggi è un investimento importantissimo, che darà i suoi frutti nel tempo. Bisogna essere coscienti e consapevoli della responsabilità verso questo tipo di azioni. Negli anni abbiamo aderito a campagne e progetti di piantumazione, collaboriamo con tantissime associazioni, ne menziono una, Rocciaviva, con cui abbiamo collaborato per anni, e queste hanno l’obiettivo di tenere in vita un territorio in maniera complessiva, dandogli valore piantando e valorizzando il terreno che abbiamo e rendendolo nuovamente fertile. Questo è l’obiettivo principale che abbiamo in masseria e che continuiamo a portare avanti nel tempo.
Qui avete anche una piccola parte dedicata alla ricezione e incontrate persone che vengono da tutto il mondo…
Ci piace accogliere le persone perché condividere quello che facciamo fa la differenza, trasmettendo i valori e soprattutto l’importanza di un territorio. Le porte della masseria si aprono a tutti coloro che vogliono vivere questo. Lo facciamo accogliendo non solo turisti, ma anche chi viene in masseria per conoscere l’identità del territorio. L’esempio che vi racconto è quello del volontariato europeo: accogliamo giovani che vivono con noi intere settimane per poter conoscere quali sono i lavori che si fanno quotidianamente qui in azienda. Devo dire che è sempre uno scambio bidirezionale, quindi non siamo solo noi a dare a loro, la maggior parte delle volte siamo noi ad imparare, perché sono ragazzi giovani, con idee, provenienti davvero da tutte le parti del mondo: abbiamo avuto congolesi, sudafricani, sudamericani, indiani e avere tra le mura domestiche un piccolo campione di una umanità così grande è qualcosa di incredibile, che ci arricchisce in maniera straordinaria. Facciamo anche accoglienza sul cammino materano: è un percorso che permette di vivere il territorio camminando lentamente e riconoscendo nei propri passi il valore del terreno e dei luoghi che si attraversano. Anche questo è molto bello perché ci permette di vedere il territorio con i loro occhi, raccontarci a loro ed accoglierli nella semplicità della masseria. Cerchiamo di coinvolgere anche le comunità locali, per fare sensibilizzazione su questi temi. Facciamo laboratori stagionali con le scuole che ci permettono di piantare un semino nelle giornate dei bambini, che si spera possano un giorno acquisire una sensibilità e un rispetto verso queste tematiche.
Qual è stato il percorso che ti ha condotto fino a qui e cosa ti ha spinto a tornare?
Dopo il Liceo ho deciso di studiare Economia perché mi attiravano i titoli di giornale che raccontavano la crisi dei mercati, le dinamiche finanziarie, ero curiosa di capire il perché di quello che leggevo. Quindi mi sono iscritta all’Università di Bari e mi sono laureata alla Triennale e subito dopo alla magistrale in Economia dei processi produttivi e Business Management. Subito dopo, ho deciso di mettere a frutto il bagaglio culturale che avevo appena messo da parte intraprendendo una carriera lavorativa presso una multinazionale con sede a Torino: il mio compito era l’analisi di processi produttivi di grandi aziende per l’efficientamento dei costi.
Dopo anni di formazione e di lavoro, sia in Italia che all’estero, ho deciso di rientrare perché sentivo forte il richiamo della mia terra e soprattutto perché penso che vivere un posto significa prendersene cura. Ho sentito questo forte richiamo e non potevo far finta di niente, quindi ho lasciato tutto e ho deciso di rientrare.
È stato difficile lasciare quella vita e cambiarla per una completamente diversa?
Devo dire la verità: io penso che la scelta di tornare e di lasciare tutto sia stata dettata anche da un leggero pizzico di incoscienza, nel senso che all’epoca ero attirata da mettere a frutto le mie capacità, nel voler tornare nella terra in cui tutto ha avuto origine per riscattare non solo il posto in cui ero nata e cresciuta, ma anche le competenze che avevo acquisito. Ritenevo che quello che avevo studiato potesse avere un valore maggiore e assumere un significato diverso se lo avessi calato nella realtà da cui io stessa provenivo, quindi ho voluto mettermi alla prova, è stata anche una scommessa con me stessa. Non è stato difficile: la scelta è stata ben ponderata, però senza lasciarmi troppo prendere dai dubbi, ho seguito quella che era la mia “voce interiore” che ognuno di noi magari sente ma che a volte viene lasciata da parte. Quindi ho preso questa decisione e sono partita. Per me è stato decisivo poter partecipare ad un bando della Regione Basilicata che incentivava il ritorno in agricoltura dei giovani. È stato un po’ la scintilla, o meglio la goccia che ha fatto traboccare il vaso: io stavo maturando questa scelta nel corso degli anni, poi ho letto questa possibilità come un segno del destino, ho sentito che era il momento di tornare.
Per te la scintilla è stata quel bando, secondo te cosa potrebbe aiutare altri a rimanere?
Io penso che restare in un territorio e sentirsene parte dia un valore immenso alla propria vita. Non dobbiamo pensare che il valore della nostra vita sia soltanto economico, perché il valore più forte che abbiamo è quello che lasciamo, quello che riusciamo a trasmettere. Infatti la propria realizzazione personale viene proprio da questa forza, da questa capacità di portare all’esterno quello che ciascuno ha dentro. Nel mio caso, volevo fare qualcosa di importante per la mia terra, mettendo alla prova anche me stessa, quindi le due cose sono sempre andate in parallelo: per me la mia realizzazione professionale è veramente interconnessa con il valore che lascio a questo territorio. E se posso dare un consiglio a chi vorrebbe intraprendere questa strada posso dire di farsi guidare dalla propria forza di volontà, dai pensieri e dai progetti. Per me è stato fondamentale avere dall’inizio un sostegno regionale che mi supportasse economicamente e burocraticamente in questa scelta, quindi penso che sia molto importante che la politica sostenga i giovani, e in generale le persone che già abitano un territorio, affinché ci sia un incentivo a continuare. Da un lato serve una gran voglia di fare, di restare, di valorizzare, di crescere, ma ci deve essere qualcuno che ci supporti in un territorio ancora fragile come può essere quello della Basilicata.
Il lavoro che svolgi è sempre meno comune, soprattutto tra i giovani: come affronti la fatica necessaria a svolgere queste attività?
Questo è un lavoro totalizzante, nel senso che mente, corpo e tempo sono fusi insieme, ed effettivamente assorbe molte energie e vitalità, ma è un lavoro che paga in termini di qualità della vita e di benessere. La fatica ha un valore diverso se viene impiegata per un progetto personale, per un progetto valido e importante, quindi anche se la sera le gambe sono stanche, il cuore è più leggero e tutto assume un valore diverso. È un lavoro che prima di tutto deve piacere, deve essere portato avanti come passione, e si dice che uno ha bisogno di ferie quando il lavoro che fa non gli piace. Questo è un lavoro così bello per chi lo fa con il cuore che le ferie in realtà non ti viene neanche di nominarle. Quindi magari hai dei piccoli momenti per te, per ritagliarti dei viaggi, ma non senti la necessità di andare via, anzi vuoi sempre più rimanere per fare, quindi ci si allontana sicuramente per ricaricarsi, però un progetto territoriale diventa sempre un progetto di vita, come lo è diventato per me.
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“Cronache di chi resta” è un diario che racconta le storie di chi ha deciso di restare, tornare o arrivare ad abitare quei territori che sono considerati periferici, marginali, senza possibilità di sviluppo e di futuro. Ripartendo dal racconto di ciò che avviene costantemente nelle piccole e grandi rivoluzioni quotidiane di chi già solo “essendoci” fa la differenza, vuole contribuire ad una narrazione diversa da quella prevalente, per contaminare scelte di possibilità. Cronache di chi resta vuole raccontare, ma anche approfondire quali sono gli ostacoli affinché un territorio possa immaginare il proprio futuro a partire dalle persone che vogliono abitarlo.