Qualche giorno fa aveva concesso la sua ultima intervista, giocata sulla nostalgia e sull’autocelebrazione, seppur con la consueta modestia, o piuttosto con la consueta retenue, come dicono i francesi, cioè senza mai parlare sopra le righe. Perché tutta la vita doveva avere per Giorgio Armani una sua coerenza. Forse è proprio questa la nota più innovativa portata dallo stilista milanese: la decisione di condurre una vita che in tutti i suoi aspetti avesse una nota assolutamente riconoscibile. Il marchio Armani non era la semplice etichetta di una serie di abiti, ma il marchio di fabbrica di un’intera esistenza.

Giorgio Armani
ANSA/DANIEL DAL ZENNARO
Per spiegarsi meglio, le interviste a Giorgio Armani erano altrettanto identificative della sua vita, delle sue borsette, del suo teatro, delle sue frequentazioni, dei suoi profumi, delle sue idee. Ogni segmento della sua vita doveva avere un carattere inconfondibile, doveva permettere di non confondere le sue cose e le sue espressioni con quelle di qualcun altro.
Anche se in modo assai diverso, un altro grande del XX secolo declinante e del XXI entrante, Steve Jobs, fondatore di Apple, è paragonabile a Giorgio Armani per la sua volontà di una vita integrata. In fondo, Jobs aveva le stesse aspirazioni dello stilista: fare business, avere successo, occupare i media, lasciare una traccia in questo mondo. Ma non a ogni costo: per entrambi, non bisognava mai superare la linea rossa del proprio label, del proprio marchio di fabbrica, della propria identità. Armani era sempre e comunque Armani, Jobs era sempre e comunque Jobs. A ogni costo, sapendo che il marchio Armani o la mela di Jobs erano perfetta espressione del proprio autore. Prova ne sia anche la riservatezza che ha avvolto le loro vite private, per precisa loro volontà.
Intendiamoci, non si tratta di dare un giudizio etico sui loro modi di vivere, sui loro comportamenti, sulle loro aspirazioni e sulle loro debolezze. Semmai il nostro è un giudizio estetico. Nell’epoca dell’immagine, della visibilità, dei selfie, del digitale, dell’autopromozione, dopo l’epoca della verità e quella della bontà, considerate a lungo soli “metro di giudizio” più adeguati sulla vita umana, Giorgio Armani e Steve Jobs ci hanno detto che il metro di giudizio deve essere innanzitutto estetico, e poi semmai etico o filosofico. Senza saperlo, hanno introdotto in modo “laico” e “definitivo” nella società contemporanea il terzo elemento della triade teologale: verità, bontà, bellezza.
Anche in altri campi questa tendenza alla valorizzazione dell’estetica è emersa nel XX secolo con prepotenza: pensiamo nella politica a Mandela; nel cinema ad Audrey Hepburn; nella religione a un Dalai Lama o a una Chiara Lubich. Per ognuno di loro, il bello, l’estetica, la forma fanno parte integrante dell’esistenza, della loro esistenza. L’elemento estetico andava ricercato come l’elemento che “teneva assieme” la vita intera. La forma non può più essere un orpello, un’aggiunta alla sostanza della verità e della bontà, ma la forma è essa stessa sostanza, e la sostanza ha bisogno di esprimersi in una forma adeguata, non come la patina stesa su una facciata, ma come la materialità stessa della casa.
Si possono immaginare facilmente le reazioni di taluni bempensanti: Armani era così era cosà ha fatto questo e quello ha fatto cose buone e cose meno buone ha sdoganato certi comportamenti inammissibili. Tutto vero e tutto parziale. Armani ha saputo cogliere uno dei grandi movimenti della nostra umanità globalizzata, che per “tenere assieme” verità e bontà ha bisogno di bellezza. Oggi quel che viene considerato importante è avere una “vita-bella”, e non solo una “vita-buona” o una “vita-vera”. Non per eliminare la verità e la bontà, ma per coronarle.