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Cultura > Venezia

Dove sta andando la Mostra?

di Mario Dal Bello

- Fonte: Città Nuova

A metà percorso si individuano alcune linee di fondo in una rassegna ricca di eventi. Il ruolo dei documentari

Una scena di “Agnus Dei”, documentario di Massimiliano Camaiti – Riccardo Ghilardi

Inizia calmo Agnus Dei  (Biennale College) in una stalla, il parto di due agnellini. La pecora bela, soffre, si pone a terra, fa nascere gli agnelli e poi li lecca con affetto. L’amore è istintivo, naturale. È bello, in contrasto con quanto succede fuori dalla stalla, nel mondo. Poi, i piccoli vengono portati a Trastevere, a Roma nell’antico convento delle monache benedettine. Verranno allevati e con il loro pelo, la loro lana, verranno tessuti i palli, ossia le fasce candide con croci nere che i papi doneranno agli arcivescovi “metropoliti” prelevandoli da una nicchia mosaicata sotto l’altare della Confessione in San Pietro, la “Nicchia dei palli”.

La macchina da presa di Massimiliano Camaiti entra silenziosamente nella vita del convento. Passano le ore e si incastrano dolcemente le une sulle altre: preghiere, pasti, lavoro. Un ritmo musicale, luci soffuse, delicatezza. E quella monaca che è cuoca, sarta e “pastora”. È lei che dà il biberon agli agnellini, li porta in braccio, li cura, li chiama con affetto. Riservata, la monaca ha la bellezza degli anziani sani, lavora e prega anche da sola, riceve i parenti, parla poco. Intanto, i mesi passano, c’è la pioggia, c’è il sole, gli agnelli crescono, vanno nel giardino, si trovano a casa. Le monache in nero e bianco sfilano leggere nella chiesa, nei corridoi, nelle stanze: un ritmo che è rapido, anche se a noi sembra lento.  Poi arriva il momento della “tosa”. Gli agnelli sono la mitezza personificata: si lasciano prendere, tosare e portare via. L’ultimo saluto della monaca “pastora” e poi via a raccogliere la lana e a tesserla. Mentre la radio parla della morte di papa Francesco e del nuovo papa Leone, le monache lavorano e poi depongono con cura i palli in una scatola decorata.

Tutto scorre, è una storia di attimi preziosi che restano, di amore. La regia del breve documentario “contemplativo” è amorosa: cieli, fiori, erbe, pareti, volti, gli animali docili e indifesi. Massimiliano Camaiti in 73 minuti trasmette un sentimento di pace tenero, silente, con scene soffuse di rispetto, con un indugiare seppur veloce sulla vita di questo mondo a parte, nascosto e pieno di freschezza.

Una foto di scena del film ‘Sotto le nuvole’ di Gianfranco Rosi, in Concorso a Venezia, 30 agosto 2025. ANSA

È amore anche il documentario – 115 minuti di Gianfranco Rosi, Sotto le nuvole. Anche qui un mondo sotto il Vesuvio da cui partono le nubi che avvolgono Napoli e i dintorni sotto le pendici del vulcano. Rosi in tre anni ha visto e “vissuto” di tutto: l’archeologia sotterranea, Pompei ed Ercolano, i tombaroli, le scosse, il terremoto, la paura e l’attaccamento al vulcano. Napoli diversa dalla cartolina, dai ricordi di Sorrentino, ma febbrile, paurosa, tremenda, generosa, fatta di mille persone e di mille epoche. Napoli: la storia sotto le nuvole dell’onnipresente vulcano, la storia dei paesi sotto le sue pendici e sotto la sua vasta ombra. Bellissimo, tenero e furioso in bianco-e-nero, sotterraneo e fumoso questo “continente” in un territorio che da sempre ha un respiro universale. Girato con immenso amore.

Scena da “Frankenstein” (Netflix Studios)

Per quanto possa sembrare strano, di amore parla anche il Frankenstein di Guillermo del Toro, dove lo scienziato gioca a fare Dio, crea un mostro semi-dio che nonostante la sua mostruosità vorrebbe forse amare. Film enciclopedico che tuttavia non stanca e pone certo alcune domande di fondo: l’uomo può fare Dio, fin dove la scienza deve andare, e il libero arbitrio? Domande con risposte che del Toro non offre ma che lascia allo spettatore, dopo aver assistito alla fantasia di uno spettacolo multicolore con attori perfetti, come  Jacob Elordi, il “mostro”, e Oscar Isaach, lo scienziato. Sogno o realtà o il futuro che ci aspetta? Già, perché oggi mostri sono persone che vestono bene, perfetti, educatissimi: belli fuori, mostri dentro. Basta guardare negli occhi la gente per capire se hanno ancora un briciolo di umanità o meno, pare vorrebbe dire del Toro alla fine del suo fantasmagorico e “simbolico” spettacolo.

Il cast e il regista di ‘Le Mage du Kremlin’ (Il mago del Cremlino), Venezia 2025. TANSA/ETTORE FERRARI

Naturalmente, è di scena la politica.

A chi dice che gli artisti sono “fuori” dalla politica e liberi da essa per esprimere la loro arte, è un po’ difficile dare credito. L’arte fa parte della “polis”, ne esprime, bene o male, la vita. Perciò ha senso espellere alcuni artisti ‒ musicisti, attori… ‒ perché fanno parte di un certo ambiente politico, ossia appaiono o sono filorussi o filoisraeliani, per restare nell’attualità? Difficile dire che il cinema non si interessi di politica: vedi Sorrentino e il suo film in effetti pro-eutanasia. Così il corteo pro-Palestina che ha sfilato al Lido ha un valore politico, e diversi artisti ‒ non tutti vi hanno partecipato, alcuni con ambigui “distinguo” – sono stati presenti: il cinema è vita, è storia.

Che lo sia, lo dice Il mago del Cremlino, dal romanzo omonimo di Giuliano da Empoli, diretto da Olivier Assayas, che di fatto racconta l’ascesa di Putin, naturalmente sotto la finzione cinematografica. L’oscuro funzionario del KGB diventa lo zar che vuol far risorgere l’impero russo. Ecco allora Jude Law, che certo non è filorusso, nei panni di Putin, a cui assomiglia nella postura, nella impenetrabilità da robot di ghiaccio. Aiutato da consiglieri fidati e da esperti mediatici, duro con gli avversari, Putin-Law è di ferro spinato. Il film sarebbe interessante perché di fatto racconta la storia russa da Gorbacev in poi, ma è prolisso, come troppi film al Lido. Però dà ragione di anni di inganni, di finzioni, di orrori che è giusto rivelare ad una Europa che è stata a guardare. Per pensare e capire il presente. Da rivedere.

Vicky Krieps, Jim Jarmusch, Cate Blanchett, Charlotte Rampling, Luka Sabbat, Mayim Bialik e Indya Moore per la prima di ‘Father Mother Sister Brother’, Venezia, 31 agosto 2025. ANSA/ETTORE FERRARI

Dalla politica alla famiglia. Dove non c’è pace. Questa volta il regista Jim Jarmusch mette in fila alcune star Charlotte Rampling, Cate Blanchett e la stellina Vicky Krips – per un dramma familiare in tre parti Father Mother Sister Brother. Domanda fondamentale: in famiglia è possibile amarsi, star bene davvero, incontrarsi di nuovo? La risposta non cercatela nel film, ma che ognuno dia la sua. Così pare voglia concludere Jim. Non sarà da Leone d’oro, ma le interpreti sono un gioiello.

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