Guardando Ogni maledetto fantacalcio − il film di Alessio Maria Federici su Netflix da qualche giorno − viene da chiedersi se l’iperbole usata dagli autori − quella di un gruppo di giovani che vive il gioco del fantacalcio in modo estremo − peschi qua e là, sostanzialmente per interessi narrativo/commerciali, dallo stereotipo di una generazione Peter Pan, o se riesca, più o meno volontariamente, a intercettare le verità di un presente in cui si fa fatica ad accogliere la vita con maturità, nella sua aspra complessità, nella sua natura faticosa.
Non è la prima volta che il cinema italiano di commedia racconta una generazione divenuta adulta biologicamente ma rimasta ancorata al gioco infantile come appiglio sicuro, ma stavolta i toni, gli accenti, lo stesso simbolo del fantacalcio, per quanto siamo dentro la caricatura, nella terra della parodia e col comico, potrebbero essere la spia di una radicalizzazione del fenomeno, il che condisce la fuga dal reale dei protagonisti di un rilievo sociale più accentuato.

Scena da “Ogni maledetto Fantacalcio”. (ph Netflix)
Sovrainterpretazione? Eccesso di analisi critica? Abuso di sottotesto per un film che vuole solo intrattenere, divertire e che, al netto di qualche parolaccia di troppo − fastidiosa consuetudine di molta commedia − possiede qualche guizzo apprezzabile (i colloqui per “assumere” il nuovo membro del fantacalcio) e riprende, tra i vari, il solco di cult apicali come Febbre da cavallo e L’allenatore nel pallone?
Può darsi. Possibile. Forse probabile. Ma non è da escludere che siano “legali” entrambe le letture, nell’impasto nebuloso di narrazione e verità che annebbia il nostro presente. Ovvero che è facile consuetudine selezionare, dei giovani adulti, la traccia/clichè fannulloni-bamboccioni, ma è anche possibile che il cinema raccolga le conseguenze della cultura sfrenata del divertimento, dello svago costante, dell’appagamento fisico, del non sacrificio, che può rendere complicato entrare nei quadri successivi della vita: quelli delle relazioni sentimentali autentiche nelle difficoltà, della consapevolezza di un matrimonio, della capacità di sostenere dignitosamente gli onori e gli oneri della genitorialità, di accettare le momentanee sconfitte, i no sulla certificazione dei nostri talenti, nel pubblico e nel privato, in una società che promette possibilità e d’improvviso si rivela avara, ingiusta, ostica.
Riflessioni, domande, interrogativi aperti e costruttivi, ma è vero, soggettivamente, per chi scrive, che vedere i ragazzi del film (che poi sarebbero uomini) imbrigliati in una così netta assenza di aspettative, di futuro, di entusiasmo (c’è anche un Hikikomori italico) non offre grande sollievo, anzi. Si può pensare: pure Smetto quando voglio era iperbolico e paradossale, e raccontava una generazione di esclusi. Sì, ma i giovani/adulti di quel film reagivano con vitalità (per quanto in modo discutibile) al problema del lavoro, riempiendo il racconto, oltreché di robusta genialità, di apprezzabile valore sociale.

Scena da “Ogni maledetto Fantacalcio”. (ph Netflix)
Si può soffiare sulla sottile (solitaria?) inquietudine procurata da Ogni maledetto fantacalcio, pensando che in fondo la commedia italiana, e non solo (pensiamo a Full Monty) ha sempre tenuto in simpatia i gruppi degli sconfitti, dei messi a margine o degli esuli volontari dalle responsabilità: dagli archetipi monicelliani di I soliti ignoti e Amici miei (scritto da Germi), passando per l’elogio dell’oblio nel meraviglioso Mediterraneo di Salvatores; per molto altro fino, appunto, al gioiellino di Smetto quando voglio, di Sydney Sibilia.Eppure, nel policitazionista Ogni maledetto fantacalcio (c’è anche I soliti sospetti), con la sua aria da parodico e innocuo instant movie (che però in qualche momento si ispessisce di amarezza, per esempio con certe confessioni al gioco della bottiglia durante l’addio al celibato) aleggia questo tema del gioco come unico salvagente nemmeno per la felicità, ma per rimanere a galla, che ha il sapore non gradevole della stasi che non fa avanzare, che provoca più malessere che pace. E questo è un punto sensibile, un argomento non trascurabile, un tema centrale, se non del film, del mondo intorno ad esso, ed è (sarebbe) compito del cinema stesso lavorare per dare risposte, perché no incoraggianti, di speranza, ai giovani che possono trovarsi come quelli di Ogni maledetto fantacalcio.
Un film che, nella sua leggerezza, a tratti eccessiva, ha il merito di mostrarci una manciata di giovani attori italiani davvero interessanti: Enrico Borello, già apprezzato in Familia di Francesco Costabile e La città proibita di Gabriele Mainetti; Antonio Bannó, decisamente convincente nelle tre stagioni di Vita da Carlo, e Francesco Russo, già ammirato in Call my agent. Loro sì, con la loro energia, portatori della brezza fresca e piacevole, ossigenante, di cui tutti abbiamo bisogno.