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Cultura > In punta di penna

Schizofrenia dei popoli

di Michele Zanzucchi

- Fonte: Città Nuova

Michele Zanzucchi, autore di Città Nuova

C’è la cultura locale e c’è quella globale, c’è la quotidianità spesso dura e c’è il sogno del benessere a tutti i costi. Troppa gente al mondo rischia di vivere una sorta di divisione interna

Mongolia moderna Foto di Nyamdorj da Pixabay

Sono appena tornato da un viaggio in Mongolia, Paese meraviglioso per motivi storici, naturalistici e anche per i sentimenti affabili e fieri della sua gente. Ma a Ulaanbaatar, la capitale, si vive in un modo, nelle immense campagne in tutt’altro modo.

E mi sono chiesto, perciò, quale sia la vera Mongolia: quella che vive di pastorizia negli immensi spazi in cui la densità umana è di tot chilometri quadrati per abitante, o quella di Ulaanbaatar, che in fondo è un alveare umano che vive sempre più secondo gli stilemi dell’occidentalità, stessi centri commerciali, stesse musiche, stessi divertimenti? LA risposta, purtroppo, non è così chiara come sembrerebbe.

Il problema non è della Mongolia, è più generale, direi universale. Quasi in tutto il mondo le società odierne sono passate da uno stile di vita semplice, in fondo rurale, a una ricerca spasmodica del benessere materiale, che spesso e volentieri confligge con le antiche regole di coesistenza e di socializzazione dei singoli popoli, e delle più diverse culture. Penso a Nairobi e al Kenya; penso ad Addis Abeba e all’Etiopia; penso a La Paz e alla Bolivia; o, ancora, a Quito e all’Ecuador; penso al Canada e ai Paesi scandinavi… Penso anche, perché no, alla provincia siciliana che si trova confrontata con gli standard di benessere (o malessere) milanesi.

Il fenomeno dell’urbanizzazione progressiva ha caratterizzato l’Occidente nella seconda metà del XX secolo, ma ora sta avvenendo in tante regioni più lontane dalla Vecchia Europa o dal Nuovo Mondo dell’America del nord: il modello capitalistico, grazie anche alla diffusione straordinaria della tecnologia digitale, dei suoi marchingegni e dei social network che la veicolano – nel Deserto del Gobi, ho visto un cammelliere che avanzava consultando il suo cellulare, lasciandosi guidare dall’animale – influenza pericolosamente le culture locali.

L’allarme non è nuovo, già Kennedy o Adenauer ne parlavano. Ricordo il grido quasi disperato di Tiziano Terzani, che abitava a Bangkok, il quale alto e forte denunciava il progressivo cambiamento culturale della Thailandia, che aveva poco alla volta sposato i modi di vivere occidentali, senza tener conto della preservazione della propria tradizione culturale. Avrebbe detto la stessa cosa, oggi, visitando Ulaanbaatar, o qualche altra capitale asiatica, visitando i mall tutti uguali a Jo0hannesburg e Hong Kong, a New York come a Kuala Lumpur.

Recentemente, in Cina è stata fatta una grande battaglia commerciale da parte delle autorità preposte all’import contro i prodotti di lusso stranieri. Gli spot pubblicitari lasciavano intendere – anzi, lo dicevano chiarissimamente − che i prodotti a buon mercato fabbricati in madre patria non erano in nulla inferiori ai prodotti di Gucci, di Christian Dior e di altre case del fashion e del lusso.

Si può discutere sul merito della questione, se cioè i prodotti di alta qualità abbiano un valore materiale reale o abbiano solo un enorme valore aggiunto per le produzioni delocalizzate che sfrutterebbero le popolazioni più povere del pianeta. E si potrebbe anche discutere sul fatto che una sana industria del lusso può essere uno stimolo notevole alla creatività e alla ricerca. Il problema è che la Cina comunista nella sua campagna contro Gucci e Dior non metteva in dubbio, non criticava minimamente il modello eminentemente capitalistico del lusso, l’aspirazione diffusa e spesso compulsiva a possedere oggetti dal costo stratosferico e in fondo inutili, ma evidenziava solo il fatto che bisognava che i cinesi (e non solo) consumassero prodotti cinesi. Il capitalismo a stelle e strisce non differisce molto, ormai, da quello della Grance Muraglia cinese.

 

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