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La natura e le relazioni tra genitori e figli protagonisti di Untamed

di Edoardo Zaccagnini

Una nuova serie televisiva mostra le meraviglie del parco americano Yosemite e le difficili relazioni umane

Untamed. Da sinistra Eric Bana come Kyle Turner, Lily Santiago come Naya Vasquez. Cr. Courtesy of Netflix © 2025

C’è il poliziesco, c’è il thriller, c’è il giallo e c’è anche un po’ di western, con qualche passaggio – rapido, fugace – venato addirittura di horror. C’è anche la natura, però, visto che Untamed, la serie da poco disponibile su Netflix in sei episodi, è ambientata totalmente nello Yosemite Park americano.

Uno spazio incantevole, a tutti gli effetti protagonista del racconto. La sua parte è la più luminosa, ossigenante: bellezza e grandiosità, fermezza e sapienza. Non solo sfondo, ma elemento di contrasto con la fragilità dell’essere umano, intesa qui come capacità di compiere errori che provocano dolore estremo al prossimo. Come l’omicidio di una giovane donna che mette in moto il racconto, quel gesto ahinoi presente nel mondo come aspetto tra i più tristi e cupi della vita.

Quel fatto iniziale diventa un caso da risolvere per il bravo ranger/poliziotto protagonista interpretato da Eric Bana (l’importante attore che recitò per Steven Spielberg, anche lì come protagonista, nel potentissimo Munich). Qui si chiama Kile Turner, è positivo, coraggioso e intelligente, anche se ferito dalla vita non superficialmente: un altro omicidio gli ha strappato un figlio profondamente amato, molto tempo prima, e il taglio dentro ancora sanguina copiosamente.

Quel dolore senza fine ha portato conseguenze serie nel privato di un uomo che si muove sofferente tra i panorami dello Yosemite e in una mescolanza di generi tutto sommato classica: con la tensione dove serve in un rispetto impeccabile, ma anche non particolarmente originale, della ricetta per intrattenere al meglio. Perchè se Untamed è ben scritta e ben girata, si avverte l’ossequiosa, abbondante, ma a tratti eccessiva, attenzione a tante lezioni che l’hanno preceduta. 

Untamed. Eric Bana nei panni di Kyle Turner. Cr. Ricardo Hubbs/Netflix © 2025

(Attenzione, sploiler!)

Eppure, nel mistero che si allarga sempre di più e svela inquietanti segreti, si muove sottilmente il materiale per una riflessione più importante della scorrevolezza scaltra di Untamed: il rapporto padri-figli. Si scoprirà solo alla fine che c’è questa relazione – mancata, falciata, trafitta – all’origine della morte violenta della giovane.

Ci accompagna inoltre, come detto, per tutti gli episodi, il dolore invincibile di un buon padre, e si fa spazio, tra le curve della trama e l’onnipresenza del paesaggio osservatore, superiore, ideale inarrivabile per i personaggi, lo storytelling della ranger assistente di Kile.

Anche lei ha un figlio, e lo cresce da sola a causa di un compagno/padre incapace di vivere le relazioni affettive senza violenza. Anche lui, coi suoi errori lampanti, vistosi fino all’enfatico, ci parla del padre, di questa figura complessa e fondamentale, di quel ruolo di cui i figli – e l’intera società – hanno estremamente bisogno. Un elemento la cui assenza, la cui distorsione, degenerazione, fragilità, provoca dolore privato capace di invadere e ammalare l’intera comunità.

Questo tema ombra, anche lui, forse, adoperato con una certa furbizia in Untamed, segna però la differenza tra una visione intrigante ma vuota ed una più sostanziosa. Perché lo spettatore sa ancora riconoscere il dislivello emotivo tra ciò che seduce, affascina, appunto intrattiene e momentaneamente conquista, e ciò che invece è centrale nella sua vita, ha peso concreto.

Ecco, dunque, che tra i monti, le valli, i fiumi, i boschi, i sentieri naturali e le efferatezze di Untamed, nell’inquietudine che si scioglie lentamente nel suo finale, quando la verità porta la pace, si può trovare un altro sentiero, più interiore e prezioso: quello che lega la parola responsabilità alla parola padre (e più in generale alla parola genitore). Un binomio imprescindibile per il futuro dell’uomo.

 

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