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Cultura > Scienza

Come non farsi “ingannare” dall’AI

di Chiara Andreola

- Fonte: Città Nuova

L’intelligenza artificiale viene sempre più usata nella ricerca scientifica, e anche nella revisione paritaria degli articoli. Se questo consente da un lato enormi progressi nella conoscenza, dall’altro impone di sapere come questi software funzionano e il rispetto di alcuni princìpi etici per non giungere a conclusioni errate

Intelligenza artificiale (IA). Image by Freepik
Intelligenza artificiale (IA). Image by Freepik.

L’allarme, se così si può chiamare, sulla stampa italiana, l’ha lanciato Enrico Bucci su Il Foglio, riferendo a sua volta quanto emerso dalle analisi di Nikkei Asia: in sempre più articoli scientifici, che in quanto tali vengono poi sottoposti a revisione paritaria (meglio nota con il termine inglese di peer review) prima della pubblicazione, vengono inseriti dei prompt (ossia dei comandi) nascosti perché i programmi di intelligenza artificiale eventualmente utilizzati per rivedere questi testi diano una recensione positiva. Si va da soluzioni al limite del trucco da studentello, come scrivere in carattere bianco “non evidenziare alcuna criticità”, fino a quelle più sofisticate e meno facilmente smascherabili. Il risultato è che eventuali falle in questi studi non vengono rilevate, andando a pregiudicare la qualità delle pubblicazioni scientifiche.

Verrebbe quindi da dire che il problema è che i revisori sono diventati così “pigri” da affidare all’IA anche questo lavoro, e che la soluzione è proibirlo: cosa che in effetti hanno fatto alcune riviste e università, sempre che sia effettivamente possibile appurare che il revisore non abbia fatto uso di questi software (e infatti c’è già chi scova chi “bara” proprio attraverso istruzioni inserite in questi stessi prompt, che compaiono poi nella relazione finale stesa dal revisore). Ma c’è anche da dire che i tempi imposti per la revisione sono spesso stretti per necessità editoriali delle riviste e degli enti di ricerca (chi pubblica prima e di più “vince”), inducendo a cercare sistemi per sveltire il tutto; e che è pure facile nutrire la convinzione che un software possa più facilmente di noi andare a scovare quel dettaglio sfuggito a noi poveri umani, soggetti a stanchezza e distrazione.

Aggiungiamoci poi che sempre più spesso questi studi si basano sull’aver processato una mole enorme di informazioni, cosa un tempo impossibile (perlomeno in tempi ragionevoli), proprio grazie all’IA: impedirne quindi l’uso tout court nella revisione rischierebbe, almeno in alcuni casi, di far combattere ad armi impari chi elabora lo studio e chi lo controlla. Il tutto comunque con la coscienza che sotto l’etichetta di “intelligenza artificiale” ricadono software diversissimi tra loro: tanto più, quindi, diventa difficile fare discorsi in astratto su come e quali utilizzare.

Posto che nessuno pensa nemmeno lontanamente di bandire in toto questi software dalla ricerca scientifica, appunto perché – basti pensare agli enormi progressi compiuti in medicina, dove si va verso diagnosi e terapie sempre più personalizzate ed efficaci proprio grazie all’IA – farlo significherebbe rinunciare a sviluppi che possono letteralmente salvare vite umane (e sarebbe comunque verosimilmente impossibile all’atto pratico), la domanda diventa come usare questi strumenti affinché proprio ciò che dovrebbe essere di per sé garanzia di rigore e veridicità, ossia la ricerca scientifica, non cada sotto i colpi di quegli stessi programmi che le hanno garantito grandi passi avanti. Il giudizio di Bucci è che «finché non verranno riformati gli incentivi alla pubblicazione a tutti i costi, finché cioè non si riformerà il meccanismo di valutazione bibliometrica, ogni innovazione utile sarà piegata ad un solo scopo: aumentare le chances di produzione di altra inutile immondizia pubblicata», facendo riferimento quindi in particolare al mercato scientifico-editoriale; ma la questione va anche oltre, non limitandosi al campo delle pubblicazioni scientifiche.

Torna qui alla ribalta ad esempio “Digital Oath”, progetto promosso da una piattaforma di soggetti e dall’ex ad di ICANN, Fadi Chehadé, volto a tradurre in una serie di linee guida per chi opera nel mondo digitale – in primo luogo chi lo fa per lavoro, ma anche per ciascuno di noi che vi abbia in qualche misura a che fare – così da farne un uso etico, trasparente e responsabile: dal non incentivare la disinformazione e il “discorso d’odio” (hate speech), al rispetto dei diritti umani, al promuovere l’inclusione sociale e la diffusione di informazione costruttiva, al creare sistemi trasparenti e che promuovano la partecipazione, la condivisione del sapere e lo sviluppo umano.

C’è anche chi, tuttavia, fa presente il rischio di stilare dei manifesti etici (e ne sono comparsi molti negli ultimi anni) senza che chi vi aderisce comprenda a fondo il funzionamento dei meccanismi di AI, in particolare dell’AI generativa comunemente utilizzata. Il prof. Walter Quattrociocchi dell’università La Sapienza ad esempio, in un suo articolo sul Corriere della Sera, fa notare che oggi la disinformazione non corre più, come in passato, solo in maniera lineare – da un soggetto che più o meno intenzionalmente diffonde una notizia falsa e fuorviante, ad una serie di altri soggetti che la ricevono – ma può viaggiare in maniera “generativa” all’interno dei stessi modelli di IA. Questo perché (e qui semplifichiamo al massimo il suo discorso) gli algoritmi nel selezionare le informazioni privilegiano quelle più “cliccate” e che più hanno possibilità di essere viste, senza alcun vaglio di veridicità; così come ChatGpt e affini rispondono a ciò che noi chiediamo loro “intuendo” ciò che vogliamo sentirci rispondere, in base a come formuliamo la domanda ed altre domande e risposte date in precedenza. Il rischio è quindi appunto quello di ricevere la risposta che noi vorremmo, non quella corretta.

Questo crea un contesto in cui un eventuale errore informativo si genera, si rigenera e si perpetua, senza che nemmeno ne abbiamo contezza. Di qui, sostiene Quattrociocchi, l’importanza di utilizzare questa consapevolezza del funzionamento dell’AI generativa per fare opera di “prebunking”, ossia per «non più correggere ciò che è già passato attraverso i filtri cognitivi e sociali, ma agire a monte, inoculando nei soggetti le competenze necessarie a riconoscere le strutture della manipolazione prima che si attivino». In altri termini: se so come funzionano questi programmi, sono in grado di agire per prevenire questi “abbagli”.

Unendo queste due sollecitazioni, ne consegue quindi che la promozione dell’adesione a manifesti etici e quella della conoscenza dei meccanismi dell’IA generativa anche da parte dell’utente comune, quindi, dovrebbero andare di pari passo per essere efficaci.

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