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Italia > Economia

Multinazionali e crimine organizzato

di Cristina Montoya

Sotto accusa per il sospetto di reiterata complicità con il crimine organizzato grandi marchi come Chiquita Brands International, conosciutissima per le sue banane e i frutti tropicali disponibili in qualsiasi stagione dell’anno

Banane Chiquita ANSA/FRANCO SILVI

Nelle ultime settimane Chiquita Brands International è tornata sulle prime pagine dei media per la condanna emessa il 24 luglio in Colombia, per il finanziamento di gruppi paramilitari (organizzazioni criminali che collaboravano con attori statali e privati), responsabili di migliaia di vittime. È la prima volta che, in questo paese latinoamericano, alti dirigenti di una multinazionale affrontano pene detentive significative e multe milionarie per il finanziamento di gruppi armati. Questa sentenza si aggiunge a quella già pronunciata il 10 giugno scorso da un tribunale della Florida per lo stesso crimine.

E non è, purtroppo, un caso isolato; un altro caso emblematico è quello dell’impresa brasiliana Odebrecht, il cui scandalo di corruzione ha attraversato quasi tutta la regione, operando come una macchina transnazionale di tangenti che ha tessuto reti con politici, imprenditori e mafie locali.

Spesso, la presenza di gruppi criminali in zone di sfruttamento minerario, agricolo o petrolifero non è vista dalle imprese come un ostacolo, ma come un’opportunità per esternalizzare il controllo del territorio. Queste alleanze, tacite o esplicite, permettono di garantire sicurezza, disciplinare la forza lavoro e reprimere le proteste sociali, senza compromettere direttamente la “reputazione” aziendale. L’ America latina è stata lo scenario di molti procedimenti giudiziari e inchieste che rivelano un modello inquietante: le imprese multinazionali sostengono reti di attori armati illegali e strutture mafiose locali, e così il crimine organizzato diventa un attore funzionale al capitale estrattivo.

Questo schema evidenzia una vulnerabilità strutturale della regione, dove istituzioni giudiziarie fragili, alti livelli di corruzione, economie estrattive e la debole presenza dello Stato nelle aree periferiche hanno creato un ambiente fertile per la penetrazione del capitale transnazionale senza controlli adeguati. In questo contesto, alcune multinazionali non solo beneficiano di vuoti normativi, ma talvolta li aggravano deliberatamente. Un esempio è la storica condanna in Colombia, giunta solo due mesi prima della prescrizione del caso, in un contesto segnato da tentativi di corruzione per impedire che la giustizia facesse il suo corso.

Un’ulteriore difficoltà si presenta quando i processi vengono dilatati o complicati dal ricorso all’arbitrato internazionale, come nel caso di Chevron-Texaco in Ecuador, condannata nel 2011 per devastazione ambientale in Amazzonia, e accusata di complicità con autorità locali per eludere le responsabilità. Tale sentenza è stata annullata dal Tribunale Arbitrale dell’Aia, sostenendo che l’inquinamento risaliva a decenni precedenti. Analogamente, nel caso di Glencore, gigante svizzero del settore minerario, sono stati documentati legami con una miniera illegale e gruppi armati in Colombia e Perù; dopo un decennio di contenziosi, l’impresa minaccia gli Stati con pesanti sanzioni economiche, scoraggiando l’avvio di nuovi procedimenti.

I processi che sopravvivono lo fanno grazie al fatto che movimenti sociali, organizzazioni indigene, difensori dell’ambiente e collettivi di avvocati hanno sviluppato strategie di contenzioso strategico nei tribunali nazionali e internazionali.

Molte multinazionali hanno agito dunque come attori geopolitici nella regione, modellando i territori a proprio vantaggio, spesso con la complicità di strutture criminali. La questione che si impone non è solo giuridica, ma anche etica e politica: possono le democrazie latinoamericane costruire economie che privilegino la vita rispetto al capitale, il territorio rispetto all’estrazione, e la dignità rispetto al profitto? La risposta dipenderà dalla capacità degli Stati di recuperare sovranità, dalla pressione internazionale e, soprattutto, dalla perseveranza dei popoli nel difendere il proprio diritto a esistere con dignità.

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