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La madre “intenzionale” e l’interesse del minore

di Adriano Pischetola

Un commento alla recente sentenza della Corte Costituzionale sulla possibilità per una lavoratrice (genitore non biologico) di fruire del congedo di paternità obbligatorio

È destinata a far discutere una recente sentenza delle Corte Costituzionale (n. 115, depositata in Cancelleria il 21 luglio 2025) in cui si attesta la illegittimità costituzionale di una previsione di legge (art. 27-bis del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 – Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) nella parte in cui non riconosce il congedo di paternità obbligatorio ad una lavoratrice, genitore intenzionale, in una coppia di donne risultanti genitori come tali nei registri dello stato civile.

È bene ricordare che la previsione colpita dalla declaratoria di illegittimità stabilisce che il padre lavoratore, dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi, si astiene dal lavoro per un periodo di dieci giorni lavorativi, non frazionabili ad ore, da utilizzare anche in via non continuativa: si tratta di un congedo fruibile anche durante il congedo di maternità della madre lavoratrice e che trova applicazione anche per il padre adottivo o affidatario.

Come si vede non c’è nessun riferimento nella previsione di legge ad un genitore, per così dire, equivalente, diverso dal padre: tanto meno quindi ad una madre – come la definisce la Corte –intenzionale per distinguerla da quella biologica.

Da qui la censura da parte della Corte che, per giustificare la declaratoria, svolge un ragionamento incentrato soprattutto sull’interesse del figlio minore, magari generato biologicamente attraverso il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, poste in essere in ambiti geografici ove la legislazione ivi vigente la prevede e tollera: ciò che rileva , secondo i giudici della Corte, è quell’interesse, per il principio di tutela dell’infanzia, immanente al nostro ordinamento, ed affermato dall’art. 31, secondo comma, Cost., in applicazione del quale ogni bambino ha diritto ad avere dei genitori individuandoli in maniera certa in coloro che abbiano assunto l’iniziativa procreativa, con relativa responsabilità, in via naturale o tramite assistenza medica (vedi anche altra sentenza della Corte n. 161 del 2023). E tale interesse, argomenta la Corte, fonda il diritto del minore a mantenere un rapporto con entrambi i genitori, diritto riconosciuto a livello di legislazione ordinaria (art. 315-bis, primo e secondo comma, e 337-ter, primo comma, cod. civ.), nonché da una serie di strumenti internazionali e dell’Unione europea.

Argomentare in senso contrario alla possibilità che la madre intenzionale (e non il padre, di fatto per ipotesi inesistente nell’orizzonte esistenziale del minore) possa reclamare la provvidenza del congedo di cui s’è detto, osservano i giudici, comporterebbe in buona sostanza una violazione dell’interesse (diritto) del minore stesso nel vedere attuata nei suoi confronti e a suo vantaggio la provvidenza scaturente dal congedo parentale: sarebbe a detrimento del tempo e della possibilità concreta di potersi dedicare alla sua cura.

E peraltro in tal modo non si terrebbe in debito conto quella piena responsabilità genitoriale che ambedue i partner (a prescindere dalla caratterizzazione omoaffettiva del loro legame) hanno liberamente deciso di assumere, ma alla quale non si darebbe in tal modo pratica ed effettiva attuazione, sotto tale particolare profilo.

Senza ignorare che la esclusione di tale provvidenza determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla situazione in cui il beneficio è riconosciuto al padre lavoratore in coppie composte da genitori di sesso diverso, in senso diametralmente contrario al principio di uguaglianza così solennemente sancito dalla nostra Carta costituzionale.

Torna pertanto in auge, per effetto della sentenza n. 115/2025,  il tema, certamente ancora tutto da sviscerare nell’ottica dei distinti livelli giuridico e sociologico, della legittima e plausibile sovrapposizione dei diritti (ma anche degli obblighi a questo punto, se si parla di responsabilità in senso pieno ) riferibili ai componenti delle coppe omogenitoriali (nel caso di specie femminili) rispetto a quelli vantati/assunti o che si intendano vantati/assunti nelle coppie eterogenitoriali. Sia la conformazione del diritto positivo interno quanto le fondamentali categorie sociologiche entro le quali quei diritti/obblighi sono definiti o definibili sono ancora troppo lontane dalle variegate vicende dell’agire e del ‘sentire’ sociale e dalle trame della quotidianità.

Forse non sarebbe inadeguato – ai fini di quanto sopra – perseguire, adottandone le movenze, quello stesso metodo valutativo utilizzato dai giudici della Corte Costituzionale incentrato, più che su categorie preconcette ed astratte, sulla natura degli interessi da privilegiare e da tutelare, dando risalto e rilievo a tutte quelle soluzioni, anche su di un piano legislativo e della più ampia di gestione nei rapporti tra Stato e cittadini, che consentano di porre quegli interessi in primo piano e indirettamente, quindi,  le persone cui essi sono realmente riferibili.

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