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Povertà, l’inquinamento più grave prodotto dall’umanità

di Edison Barbieri

- Fonte: Città Nuova

La povertà agisce come un vettore di degrado ambientale in diverse regioni del pianeta, colpendo in modo particolarmente intenso le popolazioni vulnerabili dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e persino dell’Europa. Le politiche ambientali efficaci non possono essere concepite separatamente dalle politiche sociali

Foto Ambiente e povertà foto unsplash.com/it/

Nel discorso ambientale convenzionale, l’inquinamento è solitamente associato a residui visibili o misurabili: plastica negli oceani, metalli pesanti nei sedimenti, sversamenti di petrolio, pesticidi nelle falde acquifere, gas serra nell’atmosfera.

Questo approccio, pur necessario, trascura spesso una forma di contaminazione che non si deposita sul suolo, non galleggia sull’acqua e non può essere misurata in parti per milione. Mi riferisco alla povertà — non come metafora, ma come la forma più insidiosa e persistente di degrado ambientale che l’umanità produce e tollera.

La povertà non degrada soltanto la dignità umana. Essa agisce come un vettore ecologico silenzioso, creando contesti sociali in cui l’ambiente smette di essere un bene comune per diventare una condizione ostile, una fonte immediata di sussistenza o un territorio di esclusione. Nelle regioni costiere, estuarine, amazzoniche e periferiche — dove le popolazioni umane sono più vicine e, al tempo stesso, più vulnerabili alla natura — la povertà modifica i modelli di utilizzo delle risorse, accelera lo sfruttamento predatorio e impedisce la rigenerazione degli ecosistemi.

La povertà agisce come un vettore di degrado ambientale in diverse regioni del pianeta, colpendo in modo particolarmente intenso le popolazioni vulnerabili dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e persino dell’Europa.

Nell’Africa subsahariana, che ospita la più alta percentuale mondiale di persone in povertà estrema, la dipendenza dalla legna da ardere e dal carbone vegetale aggrava la deforestazione, mentre pratiche come l’agricoltura itinerante e la pesca eccessiva derivano dalla mancanza di alternative economiche.

Nel Sud e Sud-Est asiatico, nonostante alcuni progressi, centinaia di milioni di persone affrontano ancora inondazioni, caldo estremo e fiumi contaminati da inquinamento industriale, vivendo in insediamenti precari privi di servizi igienici. In America Latina e nei Caraibi, 172 milioni di persone vivono in povertà, esposte alla contaminazione di mangrovie, fiumi e falde acquifere per mancanza di infrastrutture o a causa di pratiche predatorie come l’estrazione mineraria illegale.

In Europa, infine, la povertà energetica e l’esclusione sociale colpiscono oltre 90 milioni di persone, costringendole a ricorrere a fonti di riscaldamento inquinanti e ad abitare in aree soggette a inondazioni. Queste realtà dimostrano come la miseria, nelle sue molteplici espressioni, comprometta non solo la dignità umana, ma anche l’integrità ecologica globale.

Senza accesso a un’educazione critica, ad alternative economiche sostenibili e a politiche pubbliche integrate, queste popolazioni vengono spesso criminalizzate per pratiche di sopravvivenza che riflettono, in realtà, l’assenza storica dello Stato. Si parla di deforestazione illegale, ma raramente si mette in discussione la legalità della disuguaglianza. Si denuncia la pesca eccessiva, ma si tace sulla mancanza di supporto tecnico, credito o infrastrutture di base.

Non esiste contraddizione tra giustizia sociale e conservazione ambientale. Al contrario: vi è un’interdipendenza radicale. E ciò che colpisce maggiormente è l’incapacità delle élite politiche, tecniche, accademiche e gestionali di riconoscere questa connessione come prioritaria.

Una società che non si impegna a favore della dignità dei suoi gruppi più vulnerabili non può aspettarsi da essi alcun senso di appartenenza ecologica. Chi vive ai margini non si percepisce come parte del centro. E chi non si sente parte difficilmente si mobiliterà per proteggere ciò che, sistematicamente, lo esclude. Non si protegge ciò che non si sente proprio.

In tal modo, la povertà non solo convive con il degrado ambientale — lo riproduce e ne è riprodotta. Il ciclo è perverso e si autoalimenta. La sua perpetuazione ha impatti non solo locali, ma anche globali: distruzione delle foreste tropicali, esaurimento della biodiversità, collasso degli stock ittici, aumento della vulnerabilità agli eventi climatici estremi. Le soluzioni tecnologiche, per quanto avanzate, saranno sempre insufficienti di fronte all’inerzia sociale.

Pertanto, politiche ambientali efficaci non possono essere concepite separatamente dalle politiche sociali. Proteggere le foreste significa proteggere coloro che vi abitano. Preservare l’acqua implica garantire l’accesso all’acqua potabile. Difendere il clima comporta combattere la disuguaglianza. La conservazione ambientale, per essere legittima, deve nascere da un nuovo patto di civiltà, in cui sostenibilità e giustizia distributiva procedano insieme, rafforzandosi a vicenda.

Casi storici, come il risanamento del Tamigi a Londra o gli sforzi in corso nel fiume Riachuelo a Buenos Aires, dimostrano che la reversibilità di scenari estremi di degrado è possibile. Ma mostrano anche che esiste una soglia critica di contaminazione — sociale ed ecologica — oltre la quale non esiste più ritorno, ma solo collasso. Il tempo per agire è breve. E la finestra di reversibilità, stretta.

Come ha avvertito Edgar Morin, «non esiste una via d’uscita ecologica senza una via d’uscita sociale». Questo principio, lungi dall’essere una semplice formulazione teorica, deve orientare le priorità politiche, scientifiche ed etiche del nostro tempo. Perché il peggiore inquinamento che produciamo come umanità non è solo quello che distrugge visibilmente il pianeta, ma quello che rende impossibile agli esseri umani prendersene cura — perché sono essi stessi distrutti dalla miseria.

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