Ha fatto notevoli sforzi mediatici per dare − a suo dire − una sterzata all’economia a stelle e strisce, Donald Trump. In fondo, la sua idea non è completamente infondata: gli Stati Uniti sono in effetti oggetto di dazi di ogni tipo, espliciti o camuffati, e da ogni parte del mondo, più o meno. «Ora basta − afferma il presidente −, anche noi imponiamo dei dazi sulle merci che gli Stati uniti importano dall’estero». Non un dazio unico, ma adattato ai singoli Stati, in base a quanto attualmente tali nazioni impongono come dazi alle importazioni dagli Stati Uniti. Vuole reciprocità, «anzi gli Stati Uniti imporranno solo la metà dei dazi attualmente in vigore contro gli Usa (secondo lui, perché il balletto delle cifre è impressionante in queste ore).
Le borse del mondo intero ne stanno soffrendo, questo è un dato di fatto, mentre il dollaro perde terreno nei confronti dell’euro e dello yuan. Serpeggia una certa paura nelle cancellerie del mondo intero, e si attendono i contro-dazi; non si capisce ancora se quello che Trump ha scatenato con la conferenza stampa nel giardino della Casa Bianca sarà l’inizio di una vera e propria guerra commerciale senza esclusione di colpi, in cui gli anelli più deboli delle catene produttive e commerciali soffriranno di più. Senza poi immaginare scenari più cupi: le guerre commerciali non di rado diventano col tempo guerre militari.
Tra l’altro, le affermazioni di Trump sullo sfruttamento da parte di tanti Paesi dei “poveri” Stati Uniti non tengono conto di due fattori: quanti e quali sono gli “sfruttamenti” che gli Usa e le imprese statunitensi hanno fatto e stanno facendo nel mondo intero? E non si tiene in conto l’enorme beneficio che Washington trae dal fatto che il dollaro è la moneta di riferimento in quasi tutto il mondo, potendo così non sottomettersi alle regole della massa monetaria in circolazione? In soldoni, gli Usa stampano moneta come e quando vogliono (o quasi).
Alexis de Tocqueville, già ministro del governo francese agli inizi del XIX secolo, era un sociologo ante litteram, che aveva concentrato i suoi studi soprattutto sugli Stati Uniti per i quali nutriva una profonda ammirazione. La sua tesi, sostenuta nel suo celebre Viaggio negli Stati Uniti, era semplice: gli Stati Uniti erano fatti da un popolo composito che aveva una natura buona. Questa loro bontà ne faceva pure la loro grandezza. Se avessero cessato di essere buoni, avrebbe pure cessato di essere grandi. È, questa, una riflessione attualissima. Da decenni gli Usa hanno visto crescere nel mondo i sentimenti avversi contro la loro potenza militare e politica, oltre che economica e commerciale: gli sfruttamenti a stelle e strisce da qualche decennio vengono denunciati e i sentimenti antistatunitensi crescono di conseguenza. Le misure prese da Trump rischiano perciò di moltiplicare tale astio, anche perché Trump sembra dimenticare che le alleanze hanno un costo, e che romperle può portare a drammatici cambiamenti di campo. L’Europa, bene o male fedele partner degli statunitensi dalla Seconda guerra mondiale – non si può dimenticare l’enorme aiuto che da oltreoceano è arrivato in Europa negli anni ’40-’60 −, si sente tradita e potrebbe prenderla molto male, e ritrovare quell’unità d’intenti che non è riuscita finora ad avere.
Un segnale da non sottovalutare in questa direzione è stato il dimezzamento delle vendite delle auto Tesla in Europa negli ultimi tre mesi, caduta verticale non causata dai dazi o dalla minaccia di dazi, ma dall’opinione sfavorevole dei consumatori di fronte alle esternazioni e alle bizze del suo proprietario Elon Musk e del suo principale ispiratore, Donald Trump. E se l’Europa si mettese d’improvviso a limitare i suoi acquisti a stelle e strisce? Lo scenario non è impossibile, mentre non è così certo che avverrebbe il contrario.
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