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Economia e guerra, uscire dal pensiero unico con Napoleoni

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

L’attualità, a cento anni dalla nascita, della lezione del grande pensatore italiano su quel “residuo” dell’essere umano che si ribella alla logica del dominio e della sopraffazione. Intervista all’economista Gabriele Guzzi

Manifestazione contro la guerra, Milano 2025. ANSA/MATTEO CORNER

La storia del pensiero economico è una materia fondamentale nei corsi universitari se si vuole evitare di cadere nella trappola del pensiero unico, cioè l’imposizione di politiche dall’alto sulla pretesa “mancanza di alternative” secondo il celebre detto di Margareth Thatcher.

Anche dalle colonne de Il Sole 24 ore si è levato, di recente, l’appello di Piero Barucci contro la marginalizzazione progressiva di un insegnamento che andrebbe divulgato per dare fondamenta solide alla società democratica.

La mitica Rai di un tempo chiese nel 1960 e 1961 ad un grande economista di tenere una serie di lezioni radiofoniche che ebbero grande successo per poi essere raccolte in un libro tuttora valido. Si trattata di Claudio Napoleoni, un professore di notevole capacità comunicative, dotato di un’ampia visione culturale fondata su una continua esigenza di ricerca.

La fecondità di questo pensiero appare sempre più evidente a 100 anni dalla nascita di Napoleoni, economista fuori dagli schemi che ha offerto contributi decisivi in un periodo segnato in Italia dalla capacità di dar vita a grandi progetti come lo “Schema Vanoni” per lo sviluppo dell’economia italiana.

Con Gabriele Guzzi, docente di Storia economica all’Università di Cassino, parliamo di un testo importante di Napoleoni di cui ha avuto modo di curare la riedizione: “Lezioni sul Capitolo Sesto Inedito di Marx” (Rogas, 2024). Un libro che Guzzi riassume nel motto “tornare a Marx per andare oltre Marx”, sottolineando che occorre «recuperare una carica contestativa e rivoluzionaria, rivalutare la storia come luogo di trasformazione, demistificare l’economia politica dominante come legittimazione dell’ordine esistente».

Tesi che non ti aspetti da un giovane docente laureato negli atenei d’élite del capitalismo italiano, la Luiss e la Bocconi dove è stato anche presidente dell’associazione studentesca “Rethinking Economics Bocconi”. Guzzi è stato chiamato, inoltre, tra i consiglieri economici durante il governo Conte.

Citare Marx oggi in Italia appare rivangare una cultura ormai sconfitta che alberga in gruppuscoli litigiosi e minoritari. Cosa ha da dire oggi la lezione di Napoleoni?
Intanto devo dire che è un piacere poter dialogare su queste tematiche. La mia idea è che se esiste un senso nel riprendere oggi Marx – e io credo ci sia – è di tutt’altra natura rispetto a quello che pensa l’attuale marxismo, più o meno ortodosso. La visione economica di Marx ha incontrato dei limiti intrinseci, che Napoleoni ha individuato teoreticamente molto bene. Brevemente, la teoria del valore lavoro in Marx svolge un ruolo molto preciso: serve a offrire una prospettiva soggettiva e oggettiva alla rivoluzione. Venuta meno questa, cade il progetto scientifico-politico di Marx, almeno per come egli lo credeva opportuno. Ciò significa che nel capitalismo svanisce l’alienazione, lo sfruttamento, il dominio? O che è impossibile pensare a una rivoluzione? Tutt’altro. Ed è qui l’altro elemento originale di Napoleoni: offrire un’altra prospettiva contestativa rispetto a questo sistema di guerra. C’è la necessità di un nuovo pensiero rivoluzionario, che prenda il meglio del pensiero rivoluzionario moderno (“tornare a Marx”) ma che vada anche al di là dei suoi limiti (“andare oltre Marx”).

Se capitalismo e guerra sono inscindibili, è inevitabile la chiamata alle armi. Come afferma in maniera paradossale Giorgio Ruffolo “il capitalismo ha i secoli contatti”. Che volto ha oggi il capitalismo? E quali alternative sono realmente possibili?
Credo che il principio della guerra sia più originario rispetto al capitalismo. Il capitalismo è solo una forma espressiva di questo bellicismo. Il capitalismo ha svolto diverse funzioni emancipative nella storia: in particolare, lo sviluppo tecnico si è accelerato attraverso la ricerca della massimizzazione del profitto. Oggi, però, ha incontrato dei limiti. Non solo ambientali o sociali, come si dice giustamente. Ma limiti antropologici. C’è una parte dell’uomo, “un residuo”, per come lo chiamava Napoleoni, che non è catturato dalla logica di estraneazione e dominio intrinseca alla valorizzazione. Questa è la leva per la rivoluzione: ed è una leva che è nel cuore di ciascuno. Questo cuore collettivo è un fattore politico. Questo è l’aspetto ulteriore rispetto all’analisi di Marx, che pretendeva invece di fondare la rivoluzione solo sul terreno dell’oggettività scientifica.

Cosa ha permesso di capire l’esperienza fatta come consigliere economico alla presidenza del consiglio? Non c’è davvero “la stanza dei bottoni” come disse Pietro Nenni? Che forza ha la politica di resistere ai potentati economico finanziari?
Quella fu, per me, un’esperienza unica. Non credo che ci siano stati, prima di me, molti economisti a Palazzo Chigi di 25 anni. Mi ha formato moltissimo. Tuttavia, ciò che lascia intendere la domanda è corretto. L’anelito rivoluzionario e trasformativo si è presto scontrato con un immobilismo delle strutture politiche e burocratiche. L’urgenza di cambiamento è stata, in un certo senso, delusa. In quegli anni, ho studiato però moltissimo. Di giorno andavo alla Presidenza del Consiglio e di sera leggevo Napoleoni. Poi, quando sono tornato all’università ho cambiato radicalmente il mio progetto di ricerca. Compresi che il problema di fondo non era tanto economico-politico, di “policy”, ma spirituale, antropologico. E per questo scelsi di cambiare la tesi di dottorato e di tentare di proseguire il lavoro di Napoleoni, scrivendo una genealogia metafisica del pensiero economico, una sorta di decostruzione ontologica della disciplina. Compito davvero arduo, ma entusiasmante, che ancora sto proseguendo, e che spero che prossimamente potrà essere presentato.

Perché avete fondato con altri amici il movimento “L’Indispensabile” che definite rivoluzionario?
L’Indispensabile vuole essere la risposta a questo anelito: superare sia la rassegnazione che il riflusso identitario. L’intuizione principale è la necessità di coniugare in forma nuova il lavoro interiore con la prassi politica. Come ci ha detto giustamente Napoleoni, il vincolo da cui liberarci non è solo il capitalista. Il vincolo è antropologico, e la lotta di liberazione è ancora più radicale, perché attiene alla mia identità, alla definizione del chi sono: il vincolo è sia interiore che esteriore. Questo non elimina quindi il conflitto sociale, ma lo inquadra in una nuova interpretazione della soggettività, e quindi del Moderno. Insomma, è un piccolo e umile tentativo per dare concretezza a questa necessità di cercare ancora, di seminare su terreni nuovi.

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