Martedì sera papa Francesco l’aveva detto chiaro: «La musica può aprire il cuore all’armonia, alla gioia dello stare insieme, con un linguaggio comune e di comprensione facendoci impegnare per un mondo più giusto e fraterno». Questo 75esimo Festival, in fondo e a modo suo, ha provato a dimostrarlo, anche sacrificando, in nome della restaurazione conservatrice e di un improbabile ricompattamento sociale, gran parte delle problematiche dell’oggi, quasi del tutto assenti nei testi delle canzoni di quest’anno: niente migranti, niente guerre, femminicidi o morti sul lavoro, nessun j’accuse ai sovranisti o accenni all’iperbolico gap che separa un manipolo di tycoon dai miliardi di poveracci del pianeta. In tutto questo l’Abbronzatissimo attorniato dall’assortita pattuglia dei co-conduttori, sguazzava in un brodo di giuggiole: tra sbrilluccichi di strass, piumaggi variopinti, mazzolon di fiori, allegrie più o meno forzate, e qualche siringata di commozione, giusto per non venir tacciati di superficialità.
E tuttavia l’impressione finale è che il Paese Reale abbia definitivamente metabolizzato questo Evento, un passetto alla volta, anno dopo anno, fino a scoprirlo parte inalienabile di sé. È la resa definitiva dei detrattori e degli sberleffatori (sottoscritto compreso) che a questo punto debbono inchinarsi all’ineluttabilità di un marchingegno fors’anche diabolico, ma funzionante e funzionale a questo Paese, sia a chi lo popola che a chi lo governa.
E le canzoni? Mediamente più che accettabili con un sestetto d’una buona spanna sulle altre, a parer mio: oltre alla trionfante Bastarda nostalgia di Olly, la commuovente Quando sarai piccola di Cristicchi (incredibile la quantità di haters che l’hanno stroncata giudicandola furbescamente opportunista), l’ottimo esercizio cantautorale de L’albero delle noci di Brunori Sas, l’impeccabile La cura per me della favoritissima Giorgia (solo sesta), l’elegante Incoscienti giovani di Achille Lauro (decimo), e la tenerissima Volevo essere un duro di Lucio Corsi (sorprendente secondo), l’unico personaggio davvero sorprendente di questa edizione sfilata per il resto nella più perfetta ortodossia festivaliera.
Sui tempi lunghi probabilmente Giorgia – la favoritissima della vigilia – si riprenderà quanto le votazioni le hanno negato, così come mi aspetto i Cuoricini dei Coma_Cose al primo posto tra i tormentoni post-festivalieri; loro e Willy Peyote hanno dimostrato che si può essere trendy senz’essere iconoclasti così come l’immarcescibile Ranieri ha suffragato ancora una volta l’assioma che la classe non ha età; deludente invece la quaterna dei giovanissimi, compreso il vincitore. In compenso, fra le note positive di questo festival, c’è anche il fatto d’aver dimostrato che perfino in questo tempio del pop da supermercato la canzone d’autore non solo ha ancora diritto d’asilo, ma sa ancora offrire qualche lezione di stile e poesia a molti trappers e poppettari d’ultima generazione.
Kermesse a parte, di questo Sanremo sopravviveranno alcuni grandi duetti (nel music-business le rivalità di un tempo appartengono fortunatamente solo agli archivi del pittoresco), i sorrisoni pieni di voglia di vivere di Bianca Balti, la pirotecnica esibizione degli artisti del Teatro Patologico, le estroversioni del “solito” Benigni, e fors’anche la disarmante dolorosa sincerità di Edoardo Bove.
Un Sanremo, insomma, al meglio del suo format, entrato trionfalmente nell’era carlocontiana che poi è quella pippobaudesca. Così è, e così sarà ancora a lungo, anche se non vi pare.
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