La pratica del digiuno, l’idea di Gandhi

Il significato del digiuno del Mahatma Gandhi, legato al pacifismo del Satyāgraha, il movimento non-violento di disobbedienza civile da lui fondato e animato.
La statua del Mahatma Gandhi presso la Vidhana Soudha, la sede dell'assemblea legislativa dello Stato del Karnataka, a Bangalore, in India. (Foto Ansa, EPA/JAGADEESH NV)
La statua del Mahatma Gandhi presso la Vidhana Soudha, la sede dell'assemblea legislativa dello Stato del Karnataka, a Bangalore, in India. (Foto Ansa, EPA/JAGADEESH NV)

Ho letto con interesse riguardo all’iniziativa di un gruppo di persone di Marghera che, all’inizio della Quaresima, ha fatto la scelta coraggiosa del “digiuno” per dimostrare a favore della pace. Ne parla l’ultimo numero (aprile 2024) del mensile Città Nuova. L’articolo riferisce che i protagonisti della vicenda, tutti da tempo impegnati in modi diversi nell’ambito del pacifismo, si sono ispirati a una pratica resa famosa nel mondo dal Mahatma Gandhi. Infatti, Mohandas Karamachand Gandhi, soprannominato da Rabindranath Tagore: Mahatma, grande anima, considerava il “digiuno” come una potente arma, parte dell’arsenale del Satyāgraha, il movimento non-violento di disobbedienza civile da lui fondato e animato.

Satyāgraha, un termine che deriva dal sanscrito, sta a indicare la ‘verità’ – satya – e la ‘fermezza’ o la forza – agraha. Duqnue, in italiano può essere tradotto come “fermezza nella verità”. Non si tratta di una definizione solo di carattere filosofico o sociale, ma contiene una radice spirituale che si fonda sull’idea di ahimsa, assenza di violenza (la “a” è privativa). Da qui, il filone che si sviluppò alla sequela del leader indiano di movimenti non-violenti, una categoria ben più ampia del pacifismo. È utile ricordare, inoltre, che il termine non fu coniato da Gandhi, ma nacque da una consultazione che il giovane avvocato indiano, che all’inizio del secolo scorso operava in Sud Africa, lanciò nella comunità indiana per trovare una definizione alla sua lotta per i diritti degli indiani in un Paese dominato da leggi razziali.

A Gandhi piacque l’idea di un suo collaboratore che aveva suggerito il termine “sadagraha”, “fermezza per una buona causa”, ma lo modificò con la radice “sat”, che indica la “verità”. Infatti, non si deve dimenticare che il nome di Dio per il Mahatma era proprio Verità. Anzi, usava interscambiare Dio è Verità con la Verità è Dio. All’interno di questo processo che, nel corso degli anni, divenne non solo emblema della lotta per l’indipendenza del sub-continente indiano, ma un messaggio per il mondo intero, Gandhi sviluppò anche la sua idea di digiuno.

La radice dell’iniziativa di digiunare è sempre stata, per il Mahatma, profondamente spirituale. Amava ripetere che «non serve a nulla [digiunare] senza una viva fede in Dio. Non deve mai essere uno sforzo meccanico o di mera imitazione. Deve provenire dal profondo della propria anima». Si trattava, quindi, di un’esperienza spirituale che, tuttavia, ha portato a un impatto sociale e politico imprevedibile e sconvolgente. In India, soprattutto, nel periodo post-indipendenza quando si moltiplicavano gli scontri – e conseguenti carneficine – fra indù e musulmani a causa della divisione col Pakistan, milioni di persone restavano col fiato sospeso quando si spargeva la voce che “Bapu” – papà, nome affettuoso con cui Gandhi veniva chiamato – aveva iniziato un digiuno. Ma l’effetto non era determinato dall’atto, quanto da chi lo compiva. L’autorità morale e la credibilità del Mahatma era tale che per la gente comune era una vera tragedia sapere che egli digiunava.

Gandhi, infatti, affermava che per essere pronti all’atto del digiunare come protesta nei confronti di ingiustizia e violenza, è necessario che il protagonista sia dotato di «pazienza infinita, ferma determinazione, sincerità di intenti, perfetta calma e assenza di rancore». Si tratta di caratteristiche che non si improvvisano e che richiedono un lungo cammino che Gandhi vedeva possibile solo da chi credeva e viveva l’ahimsa, la non violenza non solo fisica, ma anche morale e spirituale. Dunque, non è azzardato pensare che il “digiuno” fosse per il leader indù una scelta e un atto sacro, profondamente religioso, proprio perché radicato in quella Verità che per lui era Dio e per realizzare il quale era necessaria una profonda ascesi preparatoria.

Interessante notare che Gandhi ha parlato di digiuno anche in rapporto all’esempio dato da Gesù e dalla sua morte in croce. Nel 1946, infatti, scriveva che il digiuno «richiede completa autopurificazione, molta più di quanta non ne occorra per affrontare la morte… Anche un solo esempio di tale perfetto sacrificio può bastare al mondo intero. Tale è considerato l’esempio di Gesù». Si comprende, quindi, perché un seguace e protagonista del Satyāgraha dovrebbe ricorrere alla pratica o all’atto del digiuno solo «come ultima risorsa».

«Quando le altre risorse dell’ingegno umano sono fallite, il seguace digiuna. Tale digiuno favorisce lo spirito della preghiera, che è come dire che il digiuno è un atto spirituale perché è rivolto verso Dio». Queste le parole che il Mahatma scrisse proprio nel periodo post-indipendenza, quando i suoi digiuni erano ricorrenti a causa dell’odio fra indù e musulmani, e pochi mesi prima dell’atto supremo del martirio, a cui i digiuni lo avevano preparato.

 

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