C’è una sorridente angoscia, un’ansiosa effervescenza, nei protagonisti di Call my Agent. Sopravvive nella seconda (spassosa) stagione che parte oggi -22 marzo- di nuovo su Sky. Il dorato mondo dello spettacolo non li alleggerisce. Li elettrizza e dà loro dipendenza. Li carica di adrenalina ma anche della paura di sbagliare. Li fa stare col pensiero di perdere il loro posto (in piedi) sotto quello strano sole che scotta più che scaldare. Il gusto di sentirsi dentro qualcosa di elitario alimenta la loro paura di dover scendere dal treno e rimanere soli in qualche abbandonato posto del mondo. È l’idolo, in una parola, quello raccontato, forse inconsapevolmente, ma bene, dall’intelligente Call my agent.
Che continua a sapere di Boris nonostante nasca come remake di una serie francese. Perchè, come nel gioiello rustico nostrano che parodiava la tv delle serie, anche qui non si disdegna il tormentone che diventa cult, e Bastianazzo, nei primi due episodi di Call my agent 2, ha l’aria di poterlo diventare: è il film dei cugini Pigna, che potevano essere i nuovi fratelli D’Innocenzo, ma la CMA – la società di agenti cinematografici al centro del racconto – ha preso un grande abbaglio, visto che la reazione della stampa è stata pessima.Qualcuno ha dato addirittura mezza stella. Giù allora con la crisi, col senso di fallimento e di terrore addosso, col mea culpa esistenziale, con la sensazione della fine imminente. Vai col manifesto di Bastianazzo appeso sopra il muro della hall accanto a quello di Perfetti sconosciuti.
Perchè se il primo deve ricordare ai protagonisti l’errore di aver abbandonato un film considerato poco forte, ma poi vincitore di premi in tutto il mondo, Bastianazzo deve rammentare di non lasciarsi buggerare dalle patacche che sembrano gioielli. O forse no, perchè una volta rinnegato, Bastianazzo inizia a mietere successo in lontani paesi del mondo, e Gabriele Muccino, gustosa guest star del secondo episodio (ce n’è una in ogni puntata di Call my agent) spara una battuta sull’effimero abbagliante, l’evanescente luccicante dello spettacolo che fa cortocircuito col bisogno di concretezza e sicurezza che l’essere umano cerca nel lavoro. «Tutto questo – dice Muccino sull’improvviso e inspiegabile successo di Bastianazzo in Sud America – ci insegna che nel mondo del cinema che piace tanto, non ci capisce niente nessuno».
Parla di quella confusa e seduttiva immaterialità del mondo dello spettacolo che può che essere dolcemente opprimente. Accadeva alla giovane Andrea (Anna Hathaway) di Il diavolo veste Prada, solo che qui Miranda Prestley non è interpretata da Meryl Streep, ma aleggia senza volto e senza nome nel super protagonista fuori campo: il mondo dello spettacolo, del cinema in particolare. La squadra di Call my agent, tutta confermata rispetto alla prima stagione, più che esserne consapevole sembra soffrirne la condizione: il cortocircuito tra la passione per il mestiere e il sottile cinismo dell’invisibile datore di lavoro. Hanno visi spesso irrigiditi, i simpatici Lea, Elvira, Vittorio, Gabriele, Monica e gli altri.
Non riescono a smettere di correre dietro a questo treno inarrestabile, e solo a tratti, quando stremati, si poggiano su un divano e parlano di affetti, di amori, e tutto si calma per un po’, prima di un altro giorno di premi, anteprime, contratti, tremore, crisi e paura. Cos’è che li aiuta davvero? Che consente loro di andare avanti? L’energia dell’idolo, si, ma anche lo stare insieme durante la navigata, l’essere in qualche modo famiglia nei quotidiani acquazzoni. Lo stare seduti alle riunioni e condividere i diversi momenti di difficoltà e gioia. Ridere insieme delle assurdità. Perché rispetto ai divertenti personaggi di Boris, quelli altrettanto gustosi di Call my agent continuano ad avere quei centimetri di profondità interiore in più che il rendono quasi da commedia all’italiana: più irrorati di vita rispetto alle magnifiche macchiette di Boris.
Anche Call my agent è inzeppato di gag, intendiamoci, alcune esilaranti, come il Gianmarco Tognazzi della seconda stagione che ha preso cinquanta chili di peso per girare il seguito di Bastianazzo («in America così ce vincono l’Oscar»), e dopo la sua bocciatura si trova disperato su un tapis roulant per perderli. Però a tratti affiora quel gradevole piano sentimentale che aggiunge qualità. Quel mondo dentro che pare sopravvivere anche in questa seconda stagione, forse meno raffinata della prima -stando ai primi due episodi visti in anteprima- ma lo stesso ruggente e scoppiettante, nei suoi continui scatti fotografici, alcuni dal retrogusto satirico, a quel cinema italiano raccontato dall’interno, con irriverenza affilata ma in fondo bonaria, con la voglia di smitizzarlo ma anche con affetto.
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