Era giovane, Giancarlo Siani, aveva solo 26 anni. Eppure i suoi articoli avevano la forza e la precisione del giornalista esperto, strutturato, dell’osservatore libero, acuto, attento, impavido. Aveva talento e amava il suo mestiere, Giancarlo Siani. Soprattutto, aveva un grande coraggio. Il coraggio di ogni verità.
Per questo è stato ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985: esattamente 40 anni fa, ed è doveroso, oggi, fare memoria del suo barbaro assassinio. Lo fa la televisione, doverosamente, che su Rai3, stasera in prima serata, attraverso un buon documentario, ne ricorderà la storia tragica e lo spessore umano dentro il suo sorriso candido, tra le righe dei suoi pezzi perentori.
Si intitola 40 anni senza Giancarlo Siani, è prodotto da Combo International, in collaborazione con Rai Documentari, e vuole parlare anche – e forse prima di tutto – ai giovani. Per questo si parte da una bella intuizione degli autori: il regista Filippo Soldi e il giornalista Pietro Perone, che insieme hanno firmato anche il soggetto e il trattamento del documentario.
A Toni Servillo – di recente Coppa Volpi a Venezia con La Grazia di Paolo Sorrentino – è stato chiesto di leggere alcuni articoli del cronista del Mattino, agli studenti del Liceo di Napoli in cui studiò lo stesso Siani, proprio nell’aula della scuola a lui dedicata.
È emozionato, l’importante attore campano, mentre racconta del giovane che quella sera rincasava dalla sede del quotidiano. Nel frattempo un drone vola sul quartiere del Vomero e si posa sulla targa dedicata a Siani: “Ucciso per aver creduto nella pace, nell’amore e nella verità”. Tre parole di una bellezza senza fine, in straziante contrasto con le foto in bianco e nero del corpo esangue del ragazzo, ancora a bordo della sua Meari verde.
Tocca a suo fratello Paolo Siani, subito dopo, tornare ai ricordi lancinanti di quella sera, e poi inizia la lunga ricostruzione delle indagini per arrivare gli esecutori materiali e ai mandanti dell’omicidio del giornalista anti camorra. Un percorso verso la verità rallentato da depistaggi ed errori, dall’omertà del contesto, con un primo momento di svolta nel 1993 – otto anni dopo! – anche grazie alle intuizioni giornalistiche del grande Sergio Zavoli (allora direttore de Il Mattino) e di un altro importante collega come Paolo Graldi.
Ci fu una sorta di allineamento di elementi, ricorda una delle testimonianze (diverse di giornalisti che conobbero direttamente Siani). Una coincidenza di fattori unita alla perseveranza giornalistica dei suoi colleghi – una sorta di pool con gli inquirenti – nella quale ebbe un ruolo importante lo stesso Pietro Perone. Un lavoro appassionato e continuo che portò alla riapertura delle indagini dopo il silenzio calato nel tempo, a causa della mancanza di risultati nell’inchiesta.
C’è il racconto di come il lavoro di Siani, col suo instancabile giornalismo investigativo, nel tempo venne confermato dagli arresti. C’è il racconto di com’era organizzata allora la camorra campana, e c’è, nei minuti che scorrono del racconto, tanto calmi quanto intensi, la ricostruzione di com’era Torre Annunziata in quegli anni: il paese vesuviano a ridosso di Napoli da cui il giornalista fu corrispondente.
Un territorio fragile, infestato dal contrabbando delle sigarette, da altri affari illeciti con collusioni varie tra politici e malviventi. Un territorio afflitto da evidenti piaghe che Siani raccontava nei suoi articoli decisi, chiari, per questo di ostacolo a quel pezzo di camorra che lì imperversava, potendo contare su miseria e disoccupazione.
Fa nomi e cognomi, l’autore dei pezzi, ricostruisce il clima culturale e criminale con grande efficacia. Restituisce la situazione di «emergenza» e di «vera e propria tragedia» nel territorio, dice una delle testimonianze. La penna di Siani offre dettagli che rafforzano il valore di quel lavoro che proprio Perone e altri colleghi, tra cui Maria Rosaria Carbone (anche lei intervistata) ripercorsero con attenzione alla ricerca di dettagli illuminanti, su esortazione dello stesso Zavoli, in concomitanza con le dichiarazioni prima di un pentito, e poi, nel tempo, di altri.
40 anni senza Giancarlo Siani si avvale della testimonianza del pubblico ministero Armando D’Alterio e del capo della squadra Mobile di Napoli Bruno Rinaldi, ma anche, tra le altre, di Chiara Grattoni, ex compagna e poi amica di Giancarlo Siani: a lei il giovane parlava delle telefonate minacciose che riceveva. Lei stessa ravviva, con le sue parole emozionate ed emozionanti (non è l’unica a farlo), lo spessore umano e professionale di quel ragazzo che, ricorda proprio Perone: «faceva parte dei giovani di quell’epoca che coltivavano il sogno del giornalismo perché credevano che potesse servire a cambiare la società»
Si arriva al motivo preciso, un articolo in particolare, per cui Siani fu ucciso. Servillo lo legge con bravura, ma si passa anche per l’eredità preziosa che Siani rinnova ancora nei giovani. Si ricompone lentamente, nei 90 minuti del documentario, il suo valido ritratto: quello di una persona che continua ad omaggiare, con la sua immortalità, quel mestiere del giornalista che – se portato avanti bene, alla Siani, potremmo dire – è fondamentale per il livello di civiltà di una comunità, per il livello di democrazia di una società, per la qualità della vita dei suoi componenti.
Un mestiere non facile, per mille motivi, di oggi, di ieri e di domani. Di sempre. Un mestiere che, come ricorda un bel film su Siani precedente a questo, Fortapàsc di Marco Risi, può essere vissuto in due modi: da “giornalisti impiegati”, quelli che vivono nella comfort zone senza cambiare nulla di ciò che vive intorno a loro, oppure da “giornalisti giornalisti”, com’era certamente Siani. Quelli che lottano, rischiano la propria vita, per tentare di estirpare il male dal bene. Per dare futuro al mondo in cui vivono.