Non dovrebbe creare stupore la decisione del ministero dell’Istruzione e del Merito che ha annullato un corso on line previsto per il 4 novembre dal titolo quanto mai esplicito, La scuola non si arruola, con l’intenzione di contrastare la narrazione che ancora collega la giornata dell’unità nazionale e delle forze armate con la retorica della vittoria della prima guerra mondiale e i suoi riti legati che culminano nell’altare della patria.
Il corso cancellato, che ha raccolto migliaia di adesioni, è promosso dall’Osservatorio sulla militarizzazione della scuola e delle università, una rete nata di fronte alla sempre più evidente presenza delle forze armate nei programmi di formazione di ogni ordine e grado. Ma la campagna di sensibilizzazione verso il mondo militare avviene, ormai, a tutti i livelli nei corsi di formazione professionale come nelle manifestazioni pubbliche di ogni specie.
Nell’ultimo salone del libro di Torino, ad esempio, spiccava l’enorme stand delle edizioni sostenute dal Ministero della Difesa.
Prepararsi alla guerra
Una presenza attiva in ogni campo che risponde ad una forte esigenza espressa più volte dal generale Carmine Masiello. Il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, infatti, sottolinea in ogni occasione (l’ultima nel convegno sull’anniversario della battaglia di Pavia) la mancanza in Italia di una cultura della Difesa nonostante lo stato di conflitto che interessa il nostro Paese, come dimostra il quadro generale internazionale, il supporto militare all’Ucraina, il piano di riarmo europeo e la conseguente preparazione alla possibilità concreta di essere chiamati a combattere.
È un’esigenza a lungo esplorata nell’intervista su cittanuova.it allo storico Marco Mondini, che parla di una fase prebellica che non si può ignorare e che fa emergere il legame strutturale, sperimentato per secoli, tra l’essere italiani e la disponibilità a versare il sangue in guerra.

ANSA/ANGELO CARCONI
Le forze armate, poi, come fa notare Mondini, non sono più governate da personaggi retorici e autoritari come in altre epoche della storia, ma esprimono nei loro quadri direttivi un pensiero critico fondato su solide basi culturali. Un settore dello Stato che possiede una visione delle questioni strategiche largamente assente nella stragrande maggioranza dei cittadini, salvo una parte del mondo “pacifista”.
Se a Pavia si celebra, con i vertici militari e della Nato, una battaglia risalente a 500 anni addietro, si comprende l’attualità del giudizio sulla “grande guerra” che secondo una certa visione sempre più diffusa non è stata affatto una “strage inutile” (secondo la famosa invocazione di papa Benedetto XV) perché avrebbe contribuito a formare, nel fango e nel sangue di quelle trincee, l’unità della nazione che si celebra il 4 novembre.
Una strage inutile?
Occorre tra l’altro tener presente che durante il fascismo sono stati divelti e non più riposizionati, dopo la caduta del regime, i monumenti che facevano memoria della prima guerra mondiale come giorno di lutto per l’orrendo mattatoio di un’intera generazione (650.000 soldati uccisi, più di un milione di feriti e invalidi, oltre 600.000 vittime civili a causa di bombardamenti e occupazioni militari, carestie ed epidemie).

Tumulazione Milite ignoto Fonte Wikipedia common
Nelle cerimonie del Vittoriano di piazza Venezia non manca l’intonazione della canzone del Piave e in ogni parte d’Italia il 4 novembre si prevedono celebrazioni ufficiali davanti ai monumenti ai caduti spesso infarciti di espressioni retoriche, mentre solo il movimento Nonviolento ha annunciato il rilancio della «Campagna di Obiezione alla guerra, per dire no alla chiamata alle armi, alla mobilitazione militare, all’ipotesi di ritorno della leva obbligatoria».
Purtroppo neanche il centenario della prima guerra mondiale, dal 2015 al 2018, prima cioè dell’avvento del governo di destra, è stato utilizzato per affrontare il nodo di una memoria condivisa da una Repubblica che ripudia la guerra a definisce la difesa della patria come sacro dovere di ogni cittadino.
Ne discende la necessità di poter parlare del concetto di difesa in un mondo che cambia rapidamente e del ruolo richiesto alle forze armate che non possono non essere coerenti con i valori della Costituzione.
L’urgenza educativa
Per questo motivo è stato significativo che ad inizio settembre 2025 si sia tenuto un seminario dal titolo Educare alla pace in tempo di guerra promosso da Caritas Italiana e Ufficio di pastorale sociale della Cei.
Il titolo dell’incontro ha avuto il merito di partire dal principio di realtà, con riferimento ad un tempo di guerra che non tollera ambiguità. Il rischio evidente, infatti, è quello di essere velleitari o illusi.
La vera domanda che non si può eludere è oggi la stessa posta da alcuni giovani del 1951 a don Primo Mazzolari sulla rivista Adesso: in caso di conflitto dobbiamo uccidere? A chi dobbiamo obbedire? Contro chi combattere? Gli americani, i russi?
Erano giovani diversi da quelli attuali. Alcuni di loro, ad esempio, avevano fatto la Resistenza e avevano usato le armi.
Solo quel prete di grande cultura e umanità, che non aveva fatto carriera restando in un paese agricolo della bassa mantovana, aveva infranto nel 1941, nella risposta ad un giovane aviatore, la consegna imposta ai cattolici di obbedire agli ordini dell’autorità legittima. Come avvenuto con la prima e poi con la seconda guerra mondiale.
Mazzolari affermò nel 1941 il dovere della rivolta e la disobbedienza agli ordini ingiusti: un giovane ufficiale dell’aeronautica militare, l’arma azzurra vanto del regime, pose una domanda logica e coerente.
Così nell’era della guerra fredda, nel 1951, sotto l’obbligo di schierarsi per ricevere protezione e controllo economico e militare, ancora una volta don Primo arrivò a ribadire la priorità del comandamento morale del “Tu non uccidere” contro ogni logica e ragionamento che giustifica la necessità di impugnare le armi.
Una scelta contraddittoria anche per chi è convinto della bontà della guerra rivoluzionaria, quella necessaria da portare contro gli oppressori per poter dare pace agli oppressi (“il nome santo di anarchia!”, come recita uno storico inno).
La tregua è finita
Oggi è terminata la lunga tregua che ha retto in Europa dal 1945, con l’avvisaglia tragica dell’implosione dell’ex Jugoslavia, e la domanda sulla necessità di uccidere a certe condizioni non riguarda più solo la forza pubblica chiamata ad intervenire contro la criminalità.
La teologa Cristina Simonelli, intervenuta al seminario di settembre, ha citato la frase di alcune pensatrici che afferma: «Esiste un’alternativa secca tra uccidere e morire, ed è vivere». Ma la tesi che avanza nei media principali e si sta imponendo in ogni contesto, è che purtroppo per vivere può essere necessario uccidere perché il nostro mondo libero è sotto assedio dalle potenze autocratiche.
Ricompare così il precedente dell’unica guerra considerata giusta: quella combattuta contro Hitler. Secondo tale tesi, se abbiamo a che fare con un nuovo Hitler, non si deve ripetere l’errore del 1938 a Monaco e quindi il riarmo è purtroppo necessario con la trasformazione della nostra economia in assetto di guerra, come affermano da tempo i vertici della Ue.
Come ha detto all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, con estrema lucidità dalla cattedra di Relazioni internazionali della Cattolica di Milano, Vittorio Emanuele Parsi, citando tra l’altro D’Annunzio, è questo il tempo in cui «occorre osare e non ordire» e quindi decidere «per cosa morire e per cosa uccidere».

Prima guerra mondiale Foto Unsplash
Uccidere senza odio, come ha ricostruito lo storico Francesco Piva, è stato «il messaggio educativo rivolto dal ramo giovanile dell’Azione cattolica italiana agli iscritti e ai militanti che, tra il 1868 e il 1943, si confrontarono con le guerre contemporanee». Un’indicazione pratica ed esistenziale percepita finora come un paradosso che suscita ilarità, ma che è pronto a riproporsi nel tempo della guerra con i droni.
A che serve la scuola?
Il Ministero dell’Istruzione sta dettando linee guida redatte con l’ausilio di Galli Della Loggia che già nel 2014 ha invitato a riconoscere la grande guerra come nascita della nazione dal sacrificio delle trincee. Tutt’altro che una strage inutile.
In questo quadro non ci possiamo meravigliare che esista l’attivismo dell’esercito nella proposta educativa delle scuole di ogni livello, come denuncia da tempo l’Osservatorio sulla militarizzazione delle scuole.
Siamo davanti all’esatto contrario dell’insegnamento di don Milani riassunto nella lettera ai cappellani militari e poi ai giudici che lo condannarono quando il priore di Barbiana era ormai morto.
La controstoria d’Italia contenuta in quegli scritti non è più un patrimonio comune, è ormai ignorato, come sa bene chi vive nella scuola la rapidità del passaggio delle generazioni.
Negli incontri periodici in alcune scuole mi è capitato di vedere il passaggio in pochi anni dalla rimozione della guerra all’accettazione nel dilemma della chiamata alle armi in caso di obbligatorietà per legge.
I forti investimenti nel complesso militare industriale pongono sempre più il ricatto occupazionale: nella Torino in cui scompare lentamente Stellantis cresce l’alternativa di Leonardo sotto l’insegna dell’aerospazio.
Ai lavoratori senesi lasciati a terra dalla turca Beko si propone la conversione in Leonardo sull’onda del piano di riarmo europeo.
Il ministro Crosetto ha chiamato a raccolta un bel numero di professori e vari influencer per costruire un think tank della difesa.
La domanda ineludibile che ci dobbiamo porre è quindi la seguente: esiste una risposta seria, approfondita e condivisa che contesti questa impostazione già pervasiva anche negli ambienti ecclesiali?
L’ex ministro della Difesa Guerini, ora presidente del Copasir, taccia di ideologismo la proposta avanzata dalle associazioni cattoliche di discutere il trattato di abolizione delle armi nucleari.
Educare alla pace con la vita
Rivolgendosi ai giovani durante il giubileo del mondo dell’educazione, papa Leone ha invitato la generazione attuale, esposta alla possibilità non remota di una guerra imminente, a coinvolgere i propri coetanei «nella ricerca della verità e nella coltivazione della pace, esprimendo queste due passioni con la vostra vita, con le parole e i gesti quotidiani».
L’urgenza educativa deve passare, quindi, sempre dalla vita di testimoni credibili. Per questo motivo la pastorale sociale della Cei ha sostenuto, assieme a papa Francesco, l’obiezione di coscienza dei portuali che rifiutano di caricare armi.

Portuali di Genova contro il traffico dii armi nei porti ANSA/LUCA ZENNARO
Un percorso educativo coerente deve dare spazio ai lavoratori come Elio Pagani, Marco Tamborini e altri, che con l’obiezione alla produzione bellica hanno permesso l’approvazione della legge 185 del 1990. Occorre far sentire la storia di Franca Faita, che con le sue compagne di lavoro ha dato con il proprio rifiuto una spinta alla messa al bando delle mine antipersona. Una testimonianza a cui occorre dare risonanza proprio mentre i nostri alleati inviano questi ordigni infernali in Ucraina.
L’aver sperimentato fin da piccoli l’apertura al mondo intero, la tensione profonda all’unità nella costruzione di una fraternità reale, ha poi condotto, in età adulta, alcune persone del Movimento dei Focolari in Sardegna ad opporsi all’invio di missili e bombe dal proprio territorio, già sacrificato da servitù militari con sperimentazioni di armi di ogni genere, per sostenere e proporre, assieme a molti altri di ogni formazione e provenienza, un’economia di pace alternativa alla guerra.
L’educazione prepara il domani, ma parte da domande poste qui e ora.
