Guerre interdipendenti

In viaggio in Azerbaigian. Mi sono accorto che i conflitti armati spargono i loro danni ovunque. Anche la guerra è ormai globalizzata
Manifestanti libanesi-armeni protestano vicino all'ambasciata azera, per denunciare l'offensiva militare azera che ha riconquistato il Nagorno-Karabakh dalle autorità separatiste armene nell'enclave, ad Ain Aar, a est di Beirut, Libano, 28 settembre, 2023. (AP Photo/Hussein Malla)

L’Azerbaigian è un Paese a suo modo neutrale negli attuali conflitti internazionali, come quello ucraino-russo e quello israelo-palestinese, ma ha (o piuttosto aveva) una guerra in casa. A Baku per un breve viaggio, ho costatato come le guerre si intersechino e si assomiglino tutte. Una guerra è nell’altra.

La guerra dell’Azerbaigian, quella per il Nagorno-Karabakh, iniziata all’indomani della caduta del Muro di Berlino, non è mai realmente cessata. Ora, approfittando anche della crisi ucraina e delle pressioni produttive e politiche che Mosca deve sopportare, ha attaccato e in poco più di 24 ore ha messo fine alla guerra, riportando una vittoria schiacciante sul nemico armeno. Decine di migliaia di armeni hanno lasciato o hanno intenzione di lasciare l’enclave contesa in territorio azero. Ovviamente, in Azerbaigian l’orgoglio nazionalista è al massimo.

Nel 2005 – quando lo sconfitto era l’Azerbaigian e il vittorioso l’Armenia – avevo assistito a una cerimonia nel Mausoleo dedicato ai morti azeri in Nagorno-Karabakh, un vero requiem, funereo. Proprio stamani, invece, ho assistito a un’analoga cerimonia, che però aveva il gusto della festa della liberazione. Un profugo azero, dal 1989, mi ha detto a chiare lettere di voler tornare immediatamente a riprendersi la casa della famiglia a Stepanakert, casa per 30 anni abitata da una famiglia armena…

Arrivando tre giorni fa all’aeroporto, ero invece stato colpito da coloro che aspettavano le valigie sullo stesso nastro. Mi sembravano ebrei… I bagagli che arrivavano erano da gente in fuga, da profughi: valigie enormi, carrozzine, sacchi tenuti assieme dallo scotch, zaini bitorzoluti. Effettivamente il volo da Roma e quello da Tel Aviv erano atterrati quasi alla stessa ora. Ho scambiato due parole con alcuni dei passeggeri da Israele, sostanzialmente azeri di religione ebraica immigrati in Israele negli ultimi 20 anni. Disperati. Arrivato poi al mio alloggio, mi sono accorto che lì accanto c’era una sinagoga, con due grosse macchine della polizia a controllarla. Il giorno successivo, ho scorto invece un gruppetto di palestinesi che esultavano per l’attacco di Hamas. La polizia ci ha messo poco a disperderli.

L’indomani, ieri, ho poi avuto modo di incontrare una famiglia di russi, scappati da Mosca – in Azerbaigian i voli dell’Aeroflot arrivano ancora – per respirare un po’, dopo due anni di “operazione speciale” o di guerra che dir si voglia, oppressi dalle nuove ristrettezze economiche, dal blocco delle loro carte di credito – anche in Azerbaijan –, ma soprattutto dallo stigma che colpisce tutti coloro che vengono da Mosca o San Pietroburgo. Un peso al cuore per loro francamente insopportabile, dopo 20 anni di libera circolazione, o quasi, con l’Europa occidentale. Mi raccontavano di amici ucraini che abitavano a Mosca e che soffrivano dello stesso stigma, ma di segno inverso.

Dal punto di osservazione azero, dunque, non ho potuto che rendermi conto, ancora una volta, che le guerre creano solo sconfitti, e mai vincitori, come ripete quasi a ogni occasione papa Francesco. Purtroppo, chi conosce la storia sa bene che questa è la realtà, ma un certo numero di politici o non conosce la storia o fa finta di non conoscerla. Si fa la guerra sostanzialmente per problemi interni, al solito: per mantenere il proprio potere si fabbrica un nemico esterno, e così si cerca di compattare l’opinione a proprio favore. L’esercizio può farlo chiunque: analizzare come mai sono nate queste guerre, quali meccanismi perversi le mantengono in vita, tirare le somme delle singole situazioni di conflitto.

Anche noi, come chiunque si rifiuti di chiudere gli occhi di fronte alla violenza della guerra, ci troviamo a seguire troppo spesso le proprie simpatie personali, le vicende della propria famiglia anche lontana, le ferite mai dimenticate per torti subiti. Prendiamo quindi posizioni radicali: il bianco è tutto da una parte, il nero dall’altra, è così ovvio. La storia invece insegna che il grigio è imperante, ma è scomodo. Si preferisce troppo spesso la posizione radicale, che diminuisce la capacità di ragionamento e di equilibrio.

Oggi che le guerre sono più interdipendenti che mai – lo si vede in Azerbaigian ma anche da noi, anche in Kenya o in Giappone –, l’equilibrio è essenziale. Se la fraternità è per sua natura interdipendente, lo sono anche le guerre. Vedere, capire, agire sono i verbi di questo momento, per chiunque. Agire per la pace, ovviamente, evitando di prendere quelle posizioni che non fanno altro che inasprire le incomprensioni. Forse in questo modo riusciremo nel nostro piccolo a prosciugare un po’ di quell’odio che sta conquistando troppi cuori.

_

Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre rivistei corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it

_

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons