10 anni fa l’Iraq fu invaso

Un decennio addietro George W. Bush partiva per il Paese arabo con i suoi alleati. Una ferita ancora sanguinante. Intervista con mons. Warduni
Iraq

10 anni fa, tondi tondi, mi trovavo per le fortuite circostanze della vita sopra una cascata scintillante del parco di Yosemite, in California. Ricevetti un messaggio dell’Ansa che annunciava il lancio della seconda guerra d’Iraq da parte di George W. Bush: guarda caso, la prima era stata fatta da suo padre… Un solo pensiero m’attraversò la mente: «Ma che ci faccio qui?». Scendendo verso Fresno, m’imbattei in una nutrita manifestazione di uomini e donne contrari all’intervento militare, proprio mentre la radio di Murdoch, la Fox, mi faceva arrivare l’esultanza di tanti osservatori perché in quel modo gli Usa mostravano «finalmente al  mondo intero i loro muscoli».

La guerra è sempre fattore di divisione, è “diabolica” nel senso etimologico del termine, cioè divide, separa, crea fossati difficilmente colmabili. E non è la vittoria militare, peraltro molto discutibile, visto che Obama, 8 anni, 8 mesi e 26 giorni dopo l’invasione militare, ha dovuto ritirare i soldati Usa con le pive nel sacco, lasciando un Paese senza governo effettivo e soprattutto senza pace né tanto meno pacificazione.

Ricorderò sempre la telefonata con il vescovo caldeo di Baghdad, Salomone Warduni, proprio alla vigilia dell’attacco statunitense nel sud dell’Iraq: «Se i marines attaccano – mi aveva detto con una voce che tradiva una grande emozione –, tra dieci anni ci troveremo in situazione peggiore dell’attuale».

Certamente la situazione è peggiorata, e di molto, per la comunità cristiana del Paese: insicurezza, emigrazione massiccia, si parla di più di metà della comunità (prima della guerra contava 700 mila fedeli), precarietà economica crescente, discriminazioni nella vita civile e politica.

E per il Paese preso complessivamente? Non c’è più il fanatico Saddam Hussein, così come non c’è più il partito Bahat, corrotto, sanguinario e onnipresente. Ma i governi succedutisi in questi anni sono estremamente fragili e le lotte intestine tra sciiti e sunniti imperversano. La democrazia elettorale, che George W. Bush voleva esportare, non è certo la forma di gestione della vita civile più confacente alla mentalità dei locali. Al-Qaeda, infine, continua a spargere le sue tossine a destra e a manca, in Iraq come altrove. Certo, il petrolio ha ripreso a sgorgare dai pozzi, ma in misura ancora inferiore a quella dell’ante-guerra. Ma quale vantaggio ben maggiore ci sarebbe stato per il Paese se gli 800 miliardi di dollari che sono costati per il conflitto fossero stati impiegati per costruire scuole e ospedali, per favorire un’istruzione adeguata e per assicurare una assistenza sanitaria adeguata?

Oggi abbiamo contattato di nuovo mons. Salomone Warduni che ci ha detto: «Ci aspettavamo delle cose molto positive dalla liberazione dalla dittatura, ma abbiamo avuto dei risultati molto negativi: ci hanno promesso la liberazione, ma ora c’è una ancor maggiore schiavitù; ci hanno promesso democrazia, ma abbiamo ogni giorno scoppi di bombe, kamikaze che si fanno esplodere, violenze gratuite e corruzioni; ci hanno promesso sicurezza, ma ora c’è libertà di uccidere. Aspettiamo ancora la liberazione, questa è la verità. Dove trionfano gli interessi particolari, dove si trova solo amore per il denaro e altre cose non giuste, dove c’è solo rancore, non c’è amore. Non c’è, non c’è senso alla vita».

E sulla attuale situazione delle comunità cristiana, ci ha risposto: «Siamo dispersi dappertutto. La separazione delle famiglie è gravissima: papà e mamma in un posto, un figlio in America e uno in Francia… Conosco famiglie divise in cinque-sei posti diversi! Noi aspettiamo la vera libertà dei figli di Dio, fondata sull’amore e sul sacrificio. Noi in occasione della Pasqua vogliamo augurare a tutti carità e libertà, amore scambievole tra tutte le religioni, tra tutte le etnie e fra tutte le convinzioni. Questo è il nostro augurio».

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