Primi passi a Venezia 2017

Che il festival di quest'anno sia una edizione per così dire"ecumenica", nel senso che abbraccia tutti i generi e le varie esperienze umane, era facile prevederlo, osservando la lista dei film nelle diverse sezioni. Programma rispettato

Fantasia e fantascienza come metafora della vita sono apparsi da subito due linee conduttrici della rassegna. Matt Damon (Paul), protagonista del film d’apertura Downsizing (Miniaturizzazione), vive grazie a un esperimento in una dimensione nuova: è alto 12 cm, abita in colonie umane miniaturizzate nella speranza di una società migliore di quella del vecchio mondo ambizioso, sovraffollato e forse destinato a morire. La scoperta è però che l’uomo è uomo dovunque e che il male si annida nel suo cuore. Paul, l’uomo medio americano senza troppe attese metafisiche, osserva l’emarginazione (gli immigrati asiatici e latini), i delinquenti, gli egoisti. Il sogno americano si rivela un’illusione, ma almeno il piccolo uomo può ritrovare sé stesso, non cedere all’egoismo militante di oggi. Cosa può salvarci, l’amore? Forse.

Il regista, nel film visivamente molto bello e ottimamente interpretato, miscelando fantasy dramma e satira, sembrerebbe virare in questa direzione. Come pure l’horror particolare di Benicio Dal Toro The Shape of Water, un fantasy romantico che narra l’amore tra una donna-pesce muta e un uomo, misteriosa creatura anfibia contesa tra russi e americani al tempo della Guerra Fredda negli anni Sessanta. Del Toro rivisita la storia proiettandola nella fantasia, come aveva fatto ne Il labirinto del Fauno, e qui, tra colori pastello e sorprendenti tocchi romantici, fa vibrare un amore che influenzerà buoni e cattivi, seppure in diversa maniera. In fondo è una favola-metafora che vuole esorcizzare la paura del diverso grazie all’amore.

Dalla metafora alla realtà. L’Insulto del libanese Ziad Doueri, molto applaudito, narra la pazza discussione tra un meccanico cristiano libanese e un operaio palestinese a Beirut. Una storia che ha un riscontro personale: un fatto simile infatti è accaduto allo stesso regista. I due litiganti finiscono in tribunale ed è la rinascita di odi e rancori dopo una guerra civile finita nel 1990, ma non nell’animo della gente. Volano infatti parole grosse, scontri, ci si rinfacciano le atrocità. C’è un gran voglia di giustizia e forse anche di capacità di perdonarsi. Difficile per gli uomini, diverso per le donne. Sono loro infatti la voce dell’intelligenza, hanno uno sguardo costruttivo, sono più forti degli uomini perchè sanno soffrire. Un film commovente e commosso che supera lo scontro fra le culture con la capacità di saper oltrepassare il muro della vendetta e dell’indifferenza.

E, a questo proposito, è necessario parlare di due film sugli immigrati che, benchè valutati in modo variegato dalla critica, sono delle sane provocazioni. Il lunghissimo docufilm di Ai Weiwei, artista dissidente cinese, Human flow, si immerge personalmente nelle folle di immigrati che sciamano in ogni parte del mondo, dalla Siria all’Afghanistan, dalla Grecia all’Iraq, dalla Birmania al Messico. Volti di vecchi, uomini donne e soprattutto bambini, gli unici che hanno la speranza negli occhi. Per quanto prolisso, estetizzante e autoreferenziale, il lavoro è un affresco partecipe sull’esodo mondiale che ci sta scuotendo. Detto poi da uno che lo paga di persona, fa il suo effetto. Ancora di più il lavoro di Andrea Segre L’ordine delle cose, dove si narra la vicenda di un alto funzionario del ministero degli Interni, Corrado (un grande Paolo Pierobon), inviato in Libia per contrastare i viaggi irregolari verso l’Europa. Nella società del post-Gheddafi egli incontrerà scenari drammatici che lo porteranno a conflitti di coscienza seri. Il film, girato prima dell’accordo Italia-Libia, ha un indubbio sapore “profetico”, considerando anche il fatto che vi partecipano 300 comparse scelte tra migranti che sul serio hanno avuto questa dura esperienza.

E infine Venezia non sarebbe Venezia se non ci fossero le star, implacabili nonostante vento e pioggia. Non parliamo dei nostri politici esibizionisti (tranne Mattarella), e per ora lasciamo George Clooney, Matt Damon e amici. Ci concentriamo sulla coppia di ottantenni Jane Fonda e Robert Redford, smaglianti come se gli anni non passassero anche per loro (ma un po’si vede, lui fatica a camminare), brillanti e dalle vivaci schermaglie autoironiche. Leone alla carriera e un nuovo film insieme sull’amore alla terza età (un altro dei temi del festival, ne riparleremo), Our Souls at Night (dal 29 su Netflix). Due star che non hanno ceduto al conformismo: lei andò in Vietnam nel ’72 per protesta contro la guerra, lui ha accettato ruoli solo coerenti con il suo stile di vita. Non è poco.

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