La rivoluzione impossibile

Un libro di Marco Tarchi sulla destra degli anni ’70 che cercò di andare oltre gli schemi. Intervista a Dario Petrucci, testimone diretto di quella vicenda politica
Copertina La rivoluzione impossibile

Il libro di Marco Tarchi («La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova Destra», Vallecchi 2010) ripercorre una vicenda, lontana nel tempo di oltre trent’anni, sulla vita e le scelte di giovani militanti di destra che cercarono di uscire fuori dagli schemi della propria tradizione e da quell’ossessione dei “nostri” che contamina ogni ambiente.

 

È un saggio di ricostruzione storica di un mondo vicino a quel Movimento Sociale Italiano che, pur escluso dall’“arco costituzionale” ha potuto sempre esprimere una rappresentanza parlamentare stabile e dare voce a quella parte di società molto più estesa dei voti che riceveva. Non solo da un certo tipo di elites ma anche da settori popolari attratti da messaggi di ribellione e alternativa. Chi vi aderiva sapeva di doversi rassegnare a rimanere una minoranza politica esclusa da ogni ruolo di governo (la realtà si rivelerà diversa) anche se coltivava il mito di un ritorno del “fascismo del 2000”.

 

È in questo contesto che vennero alla luce delle originali esperienze giovanili, destinate ad essere considerate inevitabilmente con sospetto dalla gerarchia interna. Non si trattava di nostalgici o di presunti golpisti fautori dell’eversione nera, che destano interesse in molte pubblicazioni recenti. Anzi, il saggio di Tarchi, come dice l’autore, vuole documentare la vicenda di persone che, «nella stagione più cruenta della lotta» tra bande nere e rosse, «non smarrirono né l’anima né il senno né la dignità» ma cercarono «l’apertura di un dialogo franco con gli avversari» arrivando al rifiuto della dicotomia sinistra/destra per ricercare nuove risposte.

 

La pretesa di questa “nuova destra” partiva da una visione critica del modello di civiltà occidentale come « l’atlantismo, il consumismo, il liberismo economico, la filosofia dello sviluppo industrialista». Così la proposta dei campi Hobbit, legati alla mitologia ideata da Tolkien, esprimeva il tentativo di creare luoghi animati da uno spirito comunitario, lontani da ogni tentazione nostalgico paramilitare fino, addirittura, ad avvicinarsi a posizioni non violente.

 

L’orizzonte di una “rivoluzione” rivelatasi “impossibile”, secondo Tarchi, ma che ha inciso, molto più di quel che si può immaginare, nella formazione e nella coscienza di molti giovani di quella destra che apprezzavano, ad esempio, la dirittura morale di personaggi come Generoso Simeone al quale il libro è dedicato. Attivista radicato nel Sud Italia, direttore del giornale “L’Alternativa”, Simeone sarà l’inventore dei primi campi Hobbit, anche se non farà carriera nel partito fino ad uscirne nel 1978.

 

Chiediamo qualcosa di quella generazione a Dario Petrucci, che proviene dalla terra di Simeone e ne ha ricevuto come un’impronta nella propria vocazione: un “militante”, si può ancora dire, che, pur non rivestendo alcun incarico, non ha smesso di impegnarsi in politica nell’area della destra.

 

Che facevi a Benevento negli anni ‘70? 

«Frequentavo l’istituto per geometri dove eravamo prevalentemente tutti di destra in opposizione ai ragazzi del vicino liceo che noi giudicavamo come figli di papà che giocavano a fare quelli di sinistra. Eravamo animati da un forte senso di giustizia ma Generoso ci diceva sempre che il nemico da abbattere non era l’avversario politico ma il consumismo, il capitalismo, la mira egemonica degli USA, il comunismo e la massificazione».    

 

Che tipo era ? 

«Un trascinatore. I suoi comizi erano sempre affollatissimi, era la voce del dissenso ma mai l’ho sentito denigrare l’avversario. Aveva un profondo rispetto di ogni suo interlocutore e prima di aprire bocca ascoltava a lungo chi aveva di fronte. Ricordo che una volta un ragazzo di sinistra fu cacciato da una nostra assemblea e io lo rincorsi per stargli vicino e ascoltarlo. Questo mio atteggiamento fu deriso e incompreso dagli altri ragazzi del Fronte della Gioventù. Allora Generoso ci radunò e disse:”Quello che ha fatto Dario dovete imparare a farlo tutti; dovete imparare ad ascoltare gli altri se volete capire meglio le vostre idee”».

 

Simeone smise il suo impegno,  una volta uscito dal partito? 

«Sperimentò l’ingratitudine di tanti, faceva lavori di ogni genere per sostenere la sua famiglia, ma rimase sempre con la schiena dritta. Fondò “Segnali” una rivista locale aperta al contributo di ogni schieramento politico e che divenne una coscienza critica davanti ad  un costume politico che, purtroppo, attraversa tutti i partiti quando si perde lo spirito di servizio».   

 

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