COP26: ultima chiamata per salvare il pianeta

Al via, a Glasgow, la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Che cos'è e quali sono gli obiettivi.
Boris Johnson alla Cop 26 di Glasgow, foto Ap

Il Regno Unito, insieme all’Italia, ospita il 26° vertice annuale globale sul clima, iniziativa grazie alla quale l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) riunisce da quasi trent’anni quasi tutti i suoi Stati membri in una Conferenza delle Parti (COP) per affrontare la questione del cambiamento climatico. Quest’anno il vertice si svolge nella città scozzese di Glasgow, presieduta dal Regno Unito e co-presieduta dall’Italia, ritardato di un anno a causa della pandemia di Covid-19.

La maggior parte degli esperti è concorde nel sottolineare il carattere straordinario e urgente della COP26, in considerazione del manifestarsi di situazioni climatiche sempre più avverse e di disastri naturali. Ad essi si uniscono decine di migliaia di negoziatori, rappresentanti di governo, imprese e cittadini per dodici giorni di negoziati. La sfida non consiste solo nel raggiungere accordi ambiziosi, ma realizzabili, per contrastare il surriscaldamento globale, ma nel ritrovare un nuovo equilibrio di collaborazione a livello internazionale. Da qui, non a caso, il passo dal G20 di Roma, che riunisce i Capi di Stato e di governo delle venti principali economie mondiali, alla COP26 di Glasgow è breve.

La COP21 si tenne a Parigi nel 2015 dove, per la prima volta, tutti i Paesi partecipanti giunsero all’oramai famoso Accordo di Parigi, nel quale accettarono di collaborare per limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi, puntando a limitarlo a 1,5 gradi. Inoltre i Paesi partecipanti s’impegnarono ad adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici e a mobilitare i fondi necessari per raggiungere questi obiettivi.

A gelare gli animi, a Glasgow, ha contribuito il leader indiano Modi, spiegando che il suo Paese è in ritardo: l’India, ha affermato, raggiungerà le emissioni zero nel 2070. Di fronte alle frenate imposte anche dalla Cina e da altri Stati, il premier italiano Draghi ha  detto no allo scontro, affermando che “sul clima non possiamo distinguere tra Paesi colpevoli e Paesi innocenti” e che c’è comunque una volontà comune a impegnarsi per l’ambiente e che lo scontro non fa andare avanti.

Nel quadro dell’Accordo di Parigi ciascun Paese firmatario si è impegnato a creare un piano nazionale indicante la misura della riduzione delle proprie emissioni, detto Nationally Determined Contribution (contributo determinato a livello nazionale), concordando che ogni cinque anni avrebbero presentato un piano aggiornato che rifletteva la loro massima ambizione possibile in quel momento.

Purtroppo, gli impegni presi al vertice di Parigi non sono sufficienti per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi e la data utile stimata per il raggiungimento di questo obiettivo si avvicina: il 2030. Successivamente i danni saranno irreparabili.

In linea generale, mentre l’Unione europea (UE) e gli Stati Uniti d’America (USA) concordano sulla necessità di ridurre rapidamente le emissioni di CO2, Paesi come Cina, India, Indonesia o Messico sono molto più prudenti. Un esempio lampante è stata la riunione del G20 Ambiente a Napoli il 23 luglio, dove il comunicato finale ha celato il mancato accordo sull’eliminazione dell’uso del carbone entro il 2025 e sulla necessità di limitare le emissioni a un valore compatibile con un aumento della temperatura a massimo 1,5 gradi.

Infatti, da quasi venticinque anni è chiaro che diversi Paesi emergenti e in via di sviluppo, pur riconoscendo l’importanza del problema e comprendendo appieno il pericolo rappresentato dal cambiamento climatico, sono riluttanti ad adottare misure percepite come dannose per il loro sviluppo economico e non intendono assumersi impegni paragonabili a quelli dell’UE e degli USA, ai quali vengono imputate le responsabilità storiche del surriscaldamento globale.

Eppure, secondo un report delle Nazioni Unite, seppure l’Accordo di Parigi fosse rispettato, questo non sarebbe sufficiente a contrastare efficacemente il cambiamento climatico e, entro il 2100, il pianeta sarebbe comunque più caldo di 2,7 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Su una Terra più calda di 2 gradi le ondate di calore, considerate finora eccezionali, diventerebbero fino a 14 volte più probabili ogni anno, raddoppiando gli eventi di siccità o le alluvioni, i disastri naturali e provocando nuovi esodi di rifugiati ambientali, con le conseguenze che sono già sotto gli occhi di tutti.

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