Yemen: segnali di distensione

Con la mediazione dell’Onu si sono attuati scambi di prigionieri, circa un migliaio di persone. La situazione resta comunque durissima: alle bombe e alla fame si sono aggiunti colera e Coronavirus. Ma si accende qualche segno di speranza per un cammino di cessate il fuoco. Liberati anche due ostaggi statunitensi nelle mani degli Houthi.
(AP Photo/Hani Mohammed, File)

Nello Yemen, il martoriato Paese della penisola arabica dove dal 2015 è in corso un duro conflitto (l’ultimo di una lunga serie) fra i governativi appoggiati da una coalizione a guida saudita e i ribelli sciiti Houthi vicini all’Iran, la situazione è da tempo drammatica: la “peggiore crisi umanitaria al mondo”, l’ha definita l’Onu. Non si riesce neppure a calcolare quante decine di migliaia di feriti e morti per la guerra ci siano già stati, e il Paese è alla fame.

Quest’anno si sono aggiunte le vittime del colera (si parla di 100 mila contagiati) e quelle del Coronavirus, che nessuno è in grado di quantificare perché il sistema sanitario è completamente collassato a causa della guerra e la gente evita se può di frequentare i pochi ospedali rimasti, i quali per le condizioni in cui sono costretti ad operare appaiono più dei luoghi di diffusione della pandemia che dei presidi di cura.

Sul terreno, intanto, si continua a combattere: è del 15 ottobre la notizia diffusa dalle forze filo-governative dell’uccisione di Abu Al-Batoul Al-Aqhumi, un generale molto vicino al leader di Ansar Allah (Partigiani di Dio), il 41enne Abdul-Malik Badreddin al-Houthi.

In questo quadro drammatico, una notizia positiva, o che almeno apre alla speranza, è l’adesione delle parti in conflitto ad un primo accordo di scambio di prigionieri raggiunto il mese scorso con la mediazione dell’Onu, in Svizzera. Ė un primo passo in una prospettiva di distensione, quella avviata dall’Onu già nel 2018 in Svezia, e che le parti in conflitto avevano sottoscritto per la liberazione di 15 mila prigionieri, e finora messa in atto solo sporadicamente.

Il Sottosegretario ai diritti umani del governo di Aden, Majed Fadael, ha dichiarato che i negoziati riprenderanno entro la fine dell’anno per realizzare ulteriori scambi di prigionieri. E il fratello del presidente yemenita Abd Rabbo Mansour Hadi ha preannunciato che il prossimo accordo di scambio potrebbe coinvolgere “quattro personalità del governo”.

Il primo passo, quindi, attuato in questi giorni di metà ottobre, ha comportato il rilascio da parte dei lealisti filo-sauditi del Governo di Aden di circa 600 miliziani Houthi, che da parte loro hanno liberato circa 400 filo-governativi. L’operazione di trasferimento è stata condotta, in collaborazione con la Mezzaluna rossa saudita e quella yemenita, dalla Croce Rossa internazionale, che ha messo a disposizione alcuni aerei per effettuare gli spostamenti.

L’inviato speciale dell’Onu per lo Yemen, Martin Griffiths, sostiene che l’accordo rappresenta “un segno che un dialogo di pace può essere portato avanti” e che questi primi scambi costituiscono una “pietra miliare molto importante” per risolvere la crisi e rafforzare la fiducia tra le parti.

Contemporaneamente, il governo dell’Oman (che mantiene una posizione sostanzialmente neutrale nel conflitto yemenita) ha consentito, su pressione statunitense, il ritorno in Yemen di 200 Houthi, bloccati da 2 anni nel Sultanato dove si erano recati per cure mediche. In cambio di questo via libera al ritorno in patria, le autorità Houthi di Sana’a hanno liberato due ostaggi di nazionalità statunitense, un uomo e una donna, e concesso il rimpatrio della salma di un loro connazionale deceduto durante la prigionia.

Ė importante rilevare che in questo caso si tratta di un’operazione collaterale a quella ben più complessa e difficile patrocinata dall’Onu, ma sottolineata da alcuni media Usa quasi più dell’altra, perché si tratterebbe di un’iniziativa presidenziale. Il Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Robert O’Brien (il successore del defenestrato John Bolton), si è infatti premurato di precisare su questa operazione: «Il presidente Trump continua a dare la priorità nel garantire il rilascio e il rimpatrio degli americani tenuti in ostaggio all’estero». La sensazione che se ne ricava ha un netto sentore di propaganda elettorale in vista delle imminenti elezioni presidenziali statunitensi, ma ogni liberazione di ostaggi, anche se strumentale, può comunque contribuire alla pace.

 

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