Will del mulino

Un intenso racconto di Robert Louis Stevenson con protagonista un “puro di cuore”

Vi sono narratori che per esprimersi hanno bisogno dell’ampiezza di un romanzo, altri per i quali è sufficiente il breve spazio di un racconto, ciascuno specialista nel suo campo. Altri ancora eccellono nell’uno e nell’altro genere. È il caso di Robert Louis Stevenson, autore di romanzi famosi come L’isola del tesoro e Lo strano caso del dottor Jeckill e del signor Hyde, ma anche di affascinanti racconti, singoli o in antologie come Le nuove Mille e una notte e Gli allegri compari e altri racconti, uno dei quali – Will del mulinoAdelphi ha stampato di recente nella collana “Microgrammi”. Pubblicato per la prima volta a Londra nel 1887, questo racconto è “perfetto” sotto ogni aspetto (formale, contenutistico, stilistico ed emotivo). Tutto ciò che Stevenson intendeva dire con esso è riuscito a dirlo in un libretto che, nella traduzione italiana di Franca Cavagnoli, conta appena 62 pagine nel formato 10 x 15.

Il mulino del titolo lo assimila ad altri più famosi mulini letterari: penso a romanzi come Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, Il mulino sulla Floss di George Eliot, Lettere dal mio mulino di Alphonse Daudet, La capinera del mulino di Émile Richebourg; senza contare i mulini presenti nel Don Chisciotte di Cervantes… opere nelle quali questi congegni adibiti alla produzione di farina rivestono quasi una parte da coprotagonisti. Qui, invece, il mulino è appena accennato, a stento fa sentire il rumore della sua ruota mossa dall’acqua. Più evidenza ha l’annessa locanda creata dai genitori adottivi del giovane Will. E sarà proprio lui, dopo la loro morte, a gestirla, accogliendo i viaggiatori di passaggio. L’incipit del racconto rende l’idea del sito (non identificabile, ma certamente ispirato dal paesaggio scozzese). Siamo così subito immersi nelle arie poetiche e allegoriche tipiche dello scrittore di Edimburgo.

«Il mulino in cui Will viveva con i genitori adottivi si trovava in una valle scoscesa, tra boschi di pini e grandi montagne. In alto, le colline svettavano l’una dopo l’altra finché non riemergevano tutte dagli abissi dei legni più duri per stagliarsi nude contro il cielo. Un po’ più su, un lungo villaggio grigio si distendeva come una costura o un lembo di vapore su un pendio boscoso, e quando il vento era propizio il suono delle campane scendeva, fievole e argenteo, fino a Will. In basso, la valle era sempre più erta e, allo stesso tempo, si allargava da ambo i lati; da una prominenza rocciosa accanto al mulino era possibile vederla in tutta la sua lunghezza e, oltre, lo sguardo spaziava sull’ampia pianura, dove il fiume, scintillante sotto il sole, formava un’ansa e muoveva di città in città nel suo viaggio verso il mare. Il caso aveva voluto che sopra la valle un passo conducesse nel regno confinante, così, sebbene tranquilla e agreste, la strada che fiancheggiava il fiume era una importante via di comunicazione tra due società sfarzose e potenti. Per tutta l’estate le diligenze passavano davanti al mulino arrancando verso l’alto o tuffandosi di gran carriera verso il basso, e benché l’altro versante fosse facilmente percorribile in salita, quella via non era battuta se non da persone che andavano in un’unica direzione…».

In questo luogo isolato e selvaggio, lontano dal fermento e dalle rivolte delle città affollate della pianura verso il mare, al ragazzo Will non bastano più l’abbraccio della natura e l’amicizia con le sue creature; curioso com’è, un desiderio lo tormenta: conoscere il mistero del mondo cosiddetto “civile” e sperimentarne tutte le attrattive, «nel bene e nel male» (qui c’è un tratto autobiografico di Stevenson, inquieto viaggiatore). Tuttavia, col passare del tempo, nulla accade e Will, giunto all’età adulta senza essersi mai allontanato dalla sua postazione, si è fatta una propria filosofia di vita, secondo cui l’immagine contemplativa che ha di quello stesso mondo lo rende più appagato e felice che non la sua conoscenza empirica.

Interviene un fatto nuovo: il giovane locandiere conosce Marjarie, la figlia del locale pastore, e se ne innamora. «Era così felice che la notte non riusciva a dormire, e così irrequieto che, se non era in compagnia di Marjarie, da seduto non riusciva quasi a stare fermo. Eppure, più che cercarla, sembrava evitare la sua presenza».  Ricambiato nello stesso sentimento dalla ragazza, Will esita però a sposarla e, inspiegabilmente, finisce per lasciarla libera di contrarre un altro matrimonio. Senza drammi da entrambe le parti, anche se lui «per un paio di mesi si rattristò molto e perse peso». Anni dopo, è chiamato al capezzale di lei morente. Nel loro ultimo colloquio i due – così lascia intuire lo scrittore – si dichiarano un amore mai venuto meno e forse reso più vero dalla rinuncia. «D’ora innanzi avrebbero potuto continuare ad amarsi senza scosse né difficoltà, senza dubbi né ripensamenti, oltre il golfo della morte».

Intanto la ruota del tempo (e del mulino) non cessa di girare. Ora Will ha i capelli bianchi, è un po’ curvo, ma mantiene il passo ancora fermo. Soprattutto ha un cuore giovane, è affabile con tutti e ha parole sapienti. Di lui si parla anche nelle città della pianura. Tanti gli inviti ricevuti, mai però che si sia riusciti a schiodarlo dalla sua valle tra i monti. «Da ragazzo – commenta lui – ero un po’ disorientato e a stento sapevo se a essere curioso ero io o il mondo, e dentro a quale dei due valesse la pena di guardare. Ora so che sono io, qualcosa a cui tengo fede». La rinuncia, dunque, sarebbe il suo tratto caratteristico? È vero che non pochi, fra la gente del posto e i turisti di passaggio, ritengono Will un originale. Mentre l’immagine che ne dà Stevenson è quella di un tipo semplice, schivo, abitualmente sereno, libero e appagato: insomma, di un uomo realizzato.

Siamo alla fine del racconto. In una notte densa di allucinazioni per Will, arrivato a 72 anni sazio di vita, un misterioso viaggiatore si ferma nella locanda-mulino e ha un colloquio con l’ospitale gestore: riuscirà a sradicare la vecchia quercia vissuta sempre nel medesimo posto? Al lettore scoprire il finale di questo racconto di formazione, dolcemente malinconico. Quasi una parabola sull’amore vero, che escludendo il possesso egoistico apre ad una visione superiore apportatrice di beatitudine: quella dei puri di cuore.

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