Il welfare della mafia

La busta della spesa o l’aiuto per richiedere il reddito di cittadinanza. La criminalità organizzata aveva creato a Palermo una vasta rete di aiuti e di consenso sociale, anche con la compravendita dei voti. L’operazione condotta dai carabinieri di Palermo fa emergere un consenso sociale che si alimenta nel bisogno e nell’ignoranza. Intanto, 32 anni dopo, la Cassazione chiude il processo Rostagno: fu deciso da Cosa Nostra.
Pino Puglisi

Lo hanno definito il “welfare della mafia”. La busta della spesa per chi è in necessità, specie nel tempo del lockdown, la piccola ricompensa (50 o 100 euro) per il voto al candidato amico: sono questi alcuni degli elementi che emergono dall’indagine dei carabinieri di Palermo che ha condotto in carcere alcuni esponenti di Cosa Nostra a Palermo.

Allo Zen, a Pallavicino, a Tommaso Natale, nei quartieri di periferia a Palermo, la mafia si era sostituita allo Stato e interveniva con provvidenze ed aiuti per chi aveva bisogno. Ma non è certamente aiuto disinteressato quello che partiva da Giuseppe Cusumano, boss emergente del palermitano e dai suoi uomini. L’intervento della mafia serviva a creare e, in alcuni casi, a consolidare quel rapporto con il territorio che per la criminalità è il «terreno di coltura» su cui basa la propria forza ed il proprio consenso.

La mafia ha cambiato pelle, lo si è detto tante volte, ma in questo caso sarebbe più giusto dire che ha recuperato un po’ di quel volto quasi umano e patriarcale, che obnubilava le coscienze e che creava consenso e rispetto attorno ad alcuni capimafia storici. Che nei comuni dell’entroterra siciliana spesso contavano più dello Stato.

Lo compresero bene gli statunitensi che allorché organizzarono lo sbarco in Sicilia inviarono nell’isola alcuni immigrati incaricati di tessere i rapporti con le vere autorità che restavano, in un momento in cui lo Stato veniva meno. Fu così che cercarono don Calò Vizzini, considerato il capomafia della zona di Caltanissetta e imposto come primo sindaco di Villalba o come Giuseppe Genco Russo di Mussomeli. Il loro consenso ed il loro prestigio era un misto di sottomissione, di paura e di beneplacito sociale.

Settant’anni dopo, molte cose sono cambiate nell’organizzazione criminale, che non è più la mafia dei campi ed è dedita alle grandi speculazioni internazionali ed agli affari che contano. Ma non è cambiato il bisogno di ricercare consenso nel territorio. Cessata la stagione delle stragi (almeno in quella veste più eclatante perché non è certo cessata la violenza mafiosa), si alimentano i vecchi metodi per la ricerca del consenso. Metodi che, nei quartieri popolari, funzionano ancora.

Tra i mafiosi arrestati (sedici in tutto) cinque percepivano il reddito di cittadinanza: anche in questo caso un fenomeno purtroppo diffuso nel momento in cui non si è riusciti ad attivare i necessari controlli. La mafia sfrutta i sussidi a beneficio personale e tra gli altri benefit c’era anche l’assistenza a chi doveva presentare la domanda per avere l’assegno di cittadinanza: una sorta di patronato alternativo.

La potenza criminale viene alimentata dal bisogno e dall’ignoranza, dall’incapacità di distinguere e di percepire altro che non sia il proprio bisogno immediato. L’operazione dei carabinieri di Palermo, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia deve far riflettere.

Al di là della fredda cronaca, è necessario comprendere perché questo accade e come sia fondamentale alimentare, anche a partire dalla scuola e dalla parrocchia, dall’oratorio e dai gruppi sportivi, una cultura della legalità che è fatta anche di piccole azioni quotidiani, semplici, ma rivoluzionarie. Così come lo furono le piccole azioni quotidiane di don Pino Puglisi che alla mafia davano tanto fastidio. perché la mafia ha bisogno di armi, di violenza, di denaro, ma anche e soprattutto di consenso. Ed è su quel terreno che bisogna costruire. Gesualdo Bufalino disse che la mafia può essere sconfitta da un esercito di maestre. Una frase emblematica.

La notizia degli arresti di Palermo e delle nuove/antiche trame dell’organizzazione criminale arriva nello stesso giorno in cui al Corte di Cassazione ha reso note le motivazioni del terzo grado di giudizio per il delitto di Mauro Rostagno: fu opera della mafia. Il giornalista e sociologo trapiantato a Trapani, dove aveva fondato una comunità ed operava in una tv privata, dava fastidio alla mafia. Il delitto – è stato accertato – fu deciso da Francesco Messina Denaro, padre, ormai defunto, del superlatitante Matteo. Il boss diede a Vincenzo Virga (condannato all’ergastolo come mandante) l’incarico di eliminare il giornalista scomodo.

Trentadue anni dopo (Rostagno venne ucciso nel 1988) appare difficile ricostruire la verità su quanto accadde e molte tessere del mosaico rimarranno vuote. Le indagini non imboccarono subito la pista giusta e si pensò anche alla matrice politica. Ma un pezzo della verità è stato finalmente consegnato alla storia. «Hanno tentato di farlo sembrare un omicidio commesso da persona senza le quali oggi sarei viva – scrive su Facebook la figlia Maddalena – Prendiamo tutto il bello che abbiamo comunque vissuto in questi 32 anni, tutti gli incontri vecchi e nuovi, custodiamo le cose meravigliose che insieme ad altri abbiamo fatto per poter essere in un’aula di tribunale, per fare un po’ di pulizia. Abbiamo incontrato persone perbene dello Stato. Un giorno forse si potrà fare qualcosa di più».

Che le due cronache siano avvenute nello stesso giorno, pur se in contesti e con fatti diversi, forse non è solo un caso e può consentire di avviare una riflessione seria sul fenomeno della criminalità organizzata. Come fatto storico e come fenomeno che si protrae nel tempo. Ancora oggi.

 

 

 

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