Noi vs Loro: il paradigma dei gruppi minimi

Gli esperimenti sociali condotti negli anni '60 da Rabbie e Tajfel dimostrarono la tendenza umana alla categorizzazione del prossimo in base a un bisogno di appartenenza. Un invito a riflettere su noi stessi e sulle distanze mentali immotivate che frammentano l'umanità
Noi vs Loro
(Foto: Pixabay)

L’impressione che abbiamo ogni giorno informandoci, chiacchierando o semplicemente vivendo le nostre relazioni è di abitare una società sempre meno coesa e sempre più frammentata. È vero, siamo divisi: la pandemia e la conseguente campagna vaccinale, seguite dal ritorno della guerra in Europa, hanno dato il via a una serie di contrapposizioni sempre più nette. Tuttavia, se consideriamo questo come un evento eccezionale, e crediamo che a dividerci siano solo i grandi temi sociali, forse prendiamo un abbaglio: in realtà basta molto, molto meno.

Per capirlo ci può tornare utile un esperimento condotto verso la fine degli anni ’60.

I partecipanti erano persone simili per età, provenienza sociale e istruzione. I ricercatori chiesero a ciascuno, singolarmente, di esprimere una preferenza tra i dipinti di Klee o quelli di Kandinskij. Alla persona poi veniva fornita una lista con tutti gli altri partecipanti. Solo che, al posto del nome, c’era un codice numerico (1, 2, 3…) e a fianco, la scelta che aveva compiuto (Klee oppure Kandinskij). Nessuno dei partecipanti conosceva l’identità degli appartenenti al proprio gruppo, né quella dei membri del gruppo diverso dal proprio. Gli scienziati chiesero allora a ogni partecipante di scegliere dalla lista alcuni codici (ad esempio: il 12, il 27, il 42) sapendo che, alla fine dell’esperimento, i ricercatori avrebbero dato dei soldi alla persona associata a quel codice. Chiesero, inoltre, di attribuire alcuni tratti di personalità a ciascun codice, con uno sforzo di immaginazione. La maggior parte dei partecipanti fece distribuire i soldi esclusivamente ai membri del proprio gruppo e attribuì loro i tratti di personalità positivi, riservando quelli negativi ai membri del gruppo diverso dal proprio.

Tutto questo solo in funzione di una banale preferenza artistica.

Ma per eliminare proprio qualsiasi significato alla categorizzazione, in successivi esperimenti venne apertamente detto ai partecipanti che sarebbero stati divisi in modo casuale: gruppo “A” e gruppo “B”; gruppo “gialli” e gruppo “blu”; gruppo “cerchi” e gruppo “quadrati”. Il risultato? Sempre lo stesso.

I partecipanti sapevano che la loro appartenenza al gruppo non era definita da nulla, se non dal caso; non si conoscevano e non potevano comunicare tra loro. Non c’era competizione, non si guadagnava nulla. Eppure, in tutti i casi, la maggior parte preferiva i membri del proprio gruppo.

Questi risultati, noti in psicologia sociale come “paradigma dei gruppi minimi”, sono frutto degli studi condotti da Rabbie prima e Tajfel poi, negli anni ’60-70. Si conosceva già l’influenza di molte motivazioni alla categorizzazione e differenziazione tra gruppi: politica, religione, etnia, geografia, ricchezza… Loro ci fecero capire che, in realtà, basta molto meno.

 

Cosa ci può dire, oggi, un esperimento sociale ideato più di cinquant’anni fa? Ci racconta la nostra tendenza quasi naturale a creare distinzioni, a dividere l’umanità in barricate anche a fronte di motivazioni banali o diversità inesistenti. Non illudiamoci: è un processo psicologico comune a tutti e tutte noi, anche oggi. Lo facciamo ogni giorno: serve a rafforzare la nostra autostima attraverso l’immagine di un’appartenenza che dev’essere per forza positiva. E per rendere migliore il “noi”, abbiamo bisogno di un “loro” che faccia da contraltare.

Gli studi di Rabbie e Tajfel servono a renderci più consapevoli di quanto sia difficile andare oltre a una categorizzazione mentale che ci viene spontaneo compiere; ma serve anche a renderci conto di quanto siamo inclini all’errore, e di quanto la diversità sia amplificata molto di più dal nostro bisogno di sentirci buoni e dalla parte giusta, che da reali differenze.

Non prendiamo l’esperimento sui gruppi minimi come una condanna o come un rimprovero: teniamolo per quello che è, cioè un invito alla riflessione su noi stessi. Pensiamoci nelle molteplici occasioni in cui sentiamo di essere parte di un “noi” che si contrappone a un “loro”. Non solo in politica, non solo in società. Anche in fila a uno sportello, anche in classe, anche per strada.

“Loro” sono diversi perché lo sono davvero, o sono io a percepirli così? La risposta forse non esiste. Proviamo solo a farci, più spesso, la domanda.

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