Voglia d’avventura

Perché partiamo? Per sentirci vivi? Forse la risposta è già dentro di noi. Basta cercarla con la chiave giusta.
canale di Beagle

L’unica cosa ragionevole dell’amore è la sua follia, recita un detto arabo. Ci sono pulsioni che sconfinano dal ragionevole. L’amore, di certo. E la voglia d’avventura. Perché si scalano montagne inaccessibili, si sfidano oceani, ci s’infila in foreste inespugnabili? Per dimostrare coraggio o per benefici economici? A volte ci sono anche questi motivi ma il più delle volte è per qualcosa in noi che spinge verso l’ignoto. Un richiamo dell’infinito che ci abita dentro, spesso rinchiuso in gattabuia: un gabbiano con le ali tarpate che vorrebbe volare lontano.

 

Ricordo da ragazzo, il sacco a pelo sulle spalle e via in autostop. In giro per l’Europa con pochi spiccioli in tasca. Dormire ai bordi delle strade, mangiare un po’ di pane marmellata latte e basta. Perché? Per vedere il mondo? È difficile dirlo. Le città neppure le visitavamo. Forse per il richiamo dell’asfalto, che d’estate emana un profumo irresistibile e mette le ali ai piedi. Forse per l’emozione di sentirsi vivi.

 

Una sera, a Colonia, c’era una lunga fila d’autostoppisti ai bordi dell’autostrada: aspettavamo il nostro turno e dividevamo quello che avevamo da mangiare, comunicando più a gesti che a parole. Sperimentavo, in quel nulla, un’ebbrezza di libertà. Che riempiva l’anima almeno per qualche istante.

 

Nel mio piccolo ho così sperimentato anch’io qualcosa del senso dell’avventura che ha scritto pagine grandiose della storia dell’umanità: dal poema d’Ulisse ai viaggi dei grandi esploratori e navigatori. Ora si può finalmente leggere in italiano anche il libro nel quale Lucas Bridges butta giù il racconto della sua vita spericolata in un mondo che è ormai scomparso. Gli strapparono queste memorie quasi a forza i suoi parenti e amici, due anni prima che morisse nel 1949 all’età di 73 anni: Ultimo confine del Mondo. Viaggio nella Terra del Fuoco (Einaudi).

 

Lucas Bridges era il terzo dei cinque figli del reverendo anglicano Thomas che, a metà Ottocento decise di trasferirsi dall’Inghilterra, con la giovane moglie Mary, nella Terra del Fuoco. Nei luoghi dov’era stato Darwin; in quella zona inospitale del mondo abitata dagli yaghan, indiani delle canoe, e dagli ona, cacciatori delle montagne. Popoli ormai scomparsi.

In quei posti inospitali gli indigeni avevano trovato il modo di sopravvivere: praticamente nudi, fra rocce impervie spazzate dalla furia dei venti, s’immergevano a nuoto nei mari gelidi per raggiungere le canoe e poi, fra insenature e canali burrascosi sferzati dalla pioggia e rimescolati dalle correnti, cercavano di procurarsi un po’ di pesce da mangiare e qualche mollusco. Rubavano le uova agli uccelli rischiando la vita sulle scogliere, catturavano qualche cormorano. Gli yaghan consumavano i loro pasti mentre, senza vestiti, si scaldavano ai fuochi perennemente accessi. Più in là, oltre paurose montagne, gli ona si coprivano con pelli di guanaco e cacciavano con i loro micidiali arco e frecce.

 

Thomas e Mary, dall’Inghilterra vittoriana, portarono la loro fede incrollabile in quei luoghi: con nervi d’acciaio e forza quasi sovraumana s’adeguarono a quelle estreme condizioni di vita, si fortificarono alle intemperie e alle fatiche, impararono la lingua dei nativi e rispettarono le loro tradizioni. Spinti dalla forza delle parole di Gesù «sarete miei testimoni fino agli ultimi confini del mondo», portarono lì il messaggio del Vangelo. Lì crebbero la loro famiglia. È pur vero che, come effetto collaterale, le loro buone intenzioni contribuirono a indebolire i nativi. Erano infatti abituati a ricevere il sole sulla pelle: con i vestiti il troppo calore li infiacchì e persero vitamina D, fino all’estinzione, anni dopo, dell’intera etnia. È difficile trasportare la propria cultura senza mediazioni.

 

Lucas Bridges fu educato lì dai suoi e condivise molte abitudini con i selvaggi dei luoghi. Imparò i valori delle tribù indigene, conobbe il loro fascino e, a volte, la loro disumana violenza. Difficile rimane indifferenti a queste memorie, che si dipanano come un grande romanzo. Ma la verità, al di là dei dettagli spesso succosi, rimane sempre la stessa: non c’è nulla d’entusiasmante che non si trovi già in noi, dentro lo scrigno della nostra anima. L’avventura è trovarne la chiave. Sia fra gli yaghan e gli ona della Terra del Fuoco, sia tra le vie un po’ monotone delle nostre città e paesi.

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