Vocazione e inquietudine di un attore

Un lavoro sul mestiere di attore, condizione in cui si ritrovano le inquietudini dell’individuo: paura del fallimento, desiderio di evasione e domande sulla propria motivazione

«Con “Vocazione” – scrive Danio Manfredini – metto a fuoco questo soggetto in un momento in cui sembra inutile, non necessario, occuparsi di quest’arte; fosse anche, come si dice, che il teatro è destinato a sparire, sarebbe comunque un privilegio dare luce al tramonto». L’inizio è sulla celebre aria “Vesti la giubba” dai “Pagliacci” di Leoncavallo, con Manfredini avanzare da dietro un velario verso il pubblico impersonando il personaggio “Minetti” di Thomas Bernhard, l’attore che, ormai vecchio, esce dalla scena della vita. Tra parole caustiche, che ruotano su se stesse in una ripetitività che restituisce un senso di disperazione e, al tempo stesso, di forza, si consuma il dramma dell’artista che vorrebbe, per un’ultima volta, recitare “Re Lear” di Shakespeare.

Il titolo dello spettacolo di Danio Manfredini, “Vocazione”, è emblematico. E, trattandosi di teatro, dice subito l’argomento: la vocazione dell’attore. Predisposizione naturale, aspirazione, mestiere dettato dalla passione, fuoco sacro che non si può spegnere? Sogno o condanna? «Io faccio l’attore, ma a chi importa se io ogni sera mi mangio la vita!», dirà nel mezzo di un monologo. E, ancora, griderà «sono adulto, voglio smetterla di mettere vestiti non miei, di mascherarmi». Manfredini – del quale non si possono non ricordare spettacoli importanti come “Tre studi per una crocifissione”, “Al presente” (Premio Ubu come miglior attore), “Cinema cielo” (Premio Ubu come miglior regista), “Il Principe Amleto” -, rimane una delle voci più intense e autorevoli del teatro contemporaneo, “maestro di tanti pur restando pervicacemente ai margini dei grandi circuiti e refrattario alle tentazioni del successo mediatico”, come motivò anni fa la giuria del Premio Straniero. Coadiuvato da Vincenzo Del Prete, egli si confessa mettendosi in scena e dando corpo e voce a delle riflessioni personali sulla fatica, e l’amore, del fare teatro, con le sue emozioni, paure e disillusioni, citando autori illustri e calandosi nei panni di personaggi teatrali che si confrontano, tra esaltazione e amarezza, con le proprie fragilità e debolezze e coi propri fantasmi interiori. Da Nina del “Gabbiano” di Cechov, all’attore irascibile di “Servo di scena” di Ron Harwood, all’anziano istrione del “Canto del cigno” di Cechov, e a quello di “Conversazione con la morte” di Testori, fino all’attore fallito di “Un anno con 13 lune” di Fassbinder. Un collage che si compone drammaturgicamente con semplici cambi di costume, di parrucche, di maschere al lattice, e di musiche e canzoni che sfumano sul silenzio e sulle parole. Con sprazzi autobiografici – come quando si autocita richiamando un suo spettacolo cult “Tre studi per una crocifissione” -, e venature ironiche, Manfredini compie un amaro viaggio interiore nella condizione dell’essere attore, dove, tra finzione e verità, si mescola fino a diventare tutt’uno l’arte e la vita, il palcoscenico e la realtà. Pur con qualche disomogeneità drammaturgica per la frammentazione con cui è costruito, e qualche eccesso di patetismo,”Vocazione” arriva dritto al cuore, segnando una sorta di “via crucis”. Un cammino esistenziale che è di ogni uomo.

 

A Napoli, Piscinola, Teatro Area Nord.

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