Vittorio Giacci: il cinema, una vita

Da decenni lei si occupa di cinema. Col suo ultimo libro indica la necessità di un approccio sistematico che aiuti a godere del segno filmico ma anche a saperlo interpretare? Certo. Anzi, ritengo impossibile un vero godimento senza interpretazione. Che vuol dire appassionarsi ad una rappresentazione proiettata su uno schermo se non se ne colgono i segni ed i sensi? L’approccio a un film può essere superficiale e approssimativo ma ciò dovrebbe valere solo per i film che, essendo superficiali e approssimativi, ci portano naturalmente verso quell’atteggiamento. Quando un’opera trasmette significati e valori più profondi, sarebbe un peccato non riuscire a coglierli e poiché per farlo non basta una generica preparazione, ho pensato utile fornire al lettore gli strumenti per decodificare l’opera. È un atto doveroso per chi svolge una professione come la mia estendere a chi ama il cinema la ricchezza emotiva di quest’arte che Canudo ha definito la settima arte e Cocteau la decima Musa. Un libro, dunque, che vuol essere chiaro pur in presenza di una oggettiva complessità, per essere letto da studenti e docenti ma anche da semplici appassionati. Ritiene che insegnare storia e teoria del cinema sia un modo adeguato per dare un futuro a questo medium assediato dal digitale e dalla banalizzazione globale? Non vedo altro modo per affrontare il futuro se non quello di conoscere il passato. Coscienti o no, noi siamo infatti il frutto di quello che ci ha preceduto, e ciò vale anche nel campo delle arti dove l’unica distinzione accettabile è quella qualitativa. Quando contempliamo un quadro, leggiamo un libro, ascoltiamo una musica, non pensiamo – se non per un doveroso inquadramento storico – all’epoca in cui quel prodotto è stato realizzato, ma se ci comunica emozioni. Questo purtroppo accade con il cinema che non ha ancora conquistato in pieno il titolo di espressione artistica, per cui sembra normale distinguere i film in vecchi e nuovi, in base ad un insensato criterio cronologico anziché estetico. Conoscere storia e teoria del cinema, per paradossale che possa apparire, serve ad eliminare questo equivoco e a far capire che le più belle sensazioni possiamo ricercarle e riceverle anche da un film nel passato e non necessariamente da un film recente. Conoscere le teorie, le scuole, i movimenti che hanno generato i capolavori di Ejzenstein, Chaplin, Keaton, Bunuel, Hitchcock, Lubitsch, Fellini, Ford, non significa chiudersi in un nostalgico ripiegamento ma gustare il bello là dove si è espresso e, così facendo, acquisire la necessaria sensibilità per goderne oggi e domani. Solo amando il cinema classico sarà possibile fondare un cinema moderno, ed è per tale motivo che nel libro faccio dialogare tra loro cineasti distanti nello spazio e nel tempo, immaginando che si ritrovino riuniti a ragionare della loro arte per chi vorrà seguirne l’esempio, con i nuovi mezzi che la moderna tecnologia sempre più predisporrà. A proposito, penso che il digitale non sia di per sé dannoso, ma costituisca una straordinaria opportunità espressiva rendendo il cinema, arte industriale, più accessibile, quindi più democratica. Il pericolo consiste non nella tecnologia ma in chi la usa, e così come è avvenuto agli inizi del cinema quando, dopo gli inventori ed i pionieri, sopraggiunsero i poeti, bisognerà che anche nel digitale arrivino gli artisti e arricchiscano la scienza dell’afflato della poesia. ¦ Lei si sofferma sul valore della trascendenza nel cinema. Perché? Mai come in questo periodo storico mi sembra esservi un gran bisogno di spiritualità e di trascendenza. Sono crollate le ultime utopie ideologiche mentre i valori dell’attuale società dell’economia, del mercato e del consumo globale non solo non soddisfano l’uomo ma lo rendono ancor più fragile e alla ricerca di risposte agli interrogativi del proprio tempo. André Malraux aveva affermato: Il secolo XXI sarà spirituale o non sarà. Mi sono soffermato dunque su questa componente, molto presente nel cinema delle origini e poi, in maniera più o meno esplicita, in tanti autori da Bergman a Bresson, da Rossellini a Fellini, da Dreyer a Tarkovskj, Kieslovski, Zanussi, Olmi, Pasolini, per concludere che un film non è un oggetto ma un soggetto che ci parla e che, esattamente come un essere umano, possiede oltre al corpo anche un’anima. La spiritualità nel cinema – anche se vi si riflette meno di quanto si dovrebbe – è qualcosa di più ampio rispetto alle opere esplicitamente religiose, poiché è insita nella natura stessa del cinema in quanto arte così palesemente immateriale, costruita sul sogno, sull’illusione del movimento e sull’impressione di realtà, fatta dell’impalpabile irrealtà dell’ombra e della luce, immagine sempre immaginaria perché frutto di immaginazione, cioè di un pensiero visivo, quello di chi guarda: il regista.

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