Vittime e ostaggi thailandesi nella guerra

Nella tragedia che si sta consumando da più di un mese in Israele, un capitolo sospeso in mezzo al sangue che continua a scorrere sono i circa 240 ostaggi di Hamas e della Jihad islamica. La stragrande maggioranza degli ostaggi sono cittadini israeliani o con doppia cittadinanza. Ma non solo.
Lavoratori evacuati da Israele incontrano i loro parenti al loro arrivo in Thailandia (AP Photo/Sakchai Lalit)

Da anni, nei kibbutz del sud di Israele è impiegata manodopera esterna, di origine soprattutto asiatica: thailandesi, nepalesi, cingalesi, filippini e probabilmente altri.

Fra i mille e quattrocento morti nel raid di Hamas del 7 ottobre almeno trentaquattro erano cittadini thailandesi, provenienti dalle zone a nord-est, le più povere del Paese asiatico. Si tratta di uomini che prestavano servizio di manodopera nelle coltivazioni dei kibbutz israeliani. E fonti del governo thailandese hanno precisato che 24 dei circa 240 ostaggi sono cittadini del Paese del sud-est asiatico che si trovavano nella zona oggetto dell’attacco per i medesimi motivi. Altri 19 sono rimasti feriti.

L’inizio della presenza di questa manodopera asiatica risale ad una decina di anni fa, quando, nel 2012, Israele e Thailandia firmarono un accordo per la presenza di una nutrita manodopera esterna per contribuire allo sviluppo dell’agricoltura nelle zone attorno agli insediamenti e ai kibbutz.

In tempi molto recenti, a questo primo accordo ne sono seguiti altri due, con il governo indiano e quello srilankese, che prevedono l’arrivo, rispettivamente, di 42 mila indiani per lavorare nel settore edile e di circa 10 mila srilankesi da impiegare, come i thailandesi, in quello agricolo.

Per quanto riguarda i lavoratori thailandesi presenti nel settore agricolo prima dell’attacco di Hamas, si dovrebbero aggirare attorno alle 30 mila unità. Ma di tutto questo, purtroppo, quasi nessuno parla. Lo conferma l’Hostage Family Forum, un’organizzazione no-profit israeliana che si occupa dei sequestrati di Hamas: mentre la sorte degli ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre domina i media internazionali, i 24 thailandesi – così come i nepalesi, i filippini e i tanzaniani che si ritiene siano stati rapiti durante gli attacchi – hanno ricevuto molta meno attenzione. Inoltre, quasi niente si è detto, sulla stampa internazionale, di alcuni studenti di agraria di nazionalità nepalese che sarebbero morti il 7 ottobre, così come alcuni filippini.

È, comunque, indubbio che i thailandesi siano il gruppo di cittadini non-israeliani (estranei al conflitto) ad aver pagato il maggior tributo di sangue nella guerra fra Israele e Hamas. Di conseguenza, la situazione è, ora, molto tesa fra i lavoratori stranieri rimasti in Israele.

Il governo di Bangkok ha infatti rivelato che, nelle ultime settimane, 8160 concittadini hanno chiesto di lasciare Israele e fare ritorno in patria. Sembra che il governo israeliano stia correndo ai ripari da questa fuga di lavoratori, favorendo l’arrivo in tempi brevi di manodopera indiana, soprattutto per il campo dell’edilizia, dove la maggioranza dei lavoratori sono da sempre palestinesi, ora licenziati dopo l’attacco del 7 ottobre.

Si dice che il governo di Tel Aviv stia tentando di sostituire con 100 mila indiani le forze lavoro che sono venute a mancare (perché hanno lasciato il Paese o sono stati allontanati). Il governo di Delhi ha smentito, dichiarando di non essere a conoscenza di nessuna attuale richiesta specifica da parte dello Stato ebraico, spiegando che, al contrario, trattative per iniziative di questo tipo sono in corso fin dal 2022.

Recentemente era stato il canale Voice of America ad affermare che l’Associazione dei costruttori edili israeliani aveva dichiarato che il settore stava “aspettando una decisione da parte del governo israeliano” riguardo ad un accordo con l’India per assumere “da 50 a 100 mila lavoratori indiani” per sostituire circa 90 mila lavoratori palestinesi e così “gestire tutti i comparti riportando la situazione alla normalità”.

Un dramma nel dramma di questa situazione sempre più tragica e dolorosa che esce anche dai confini del Medio Oriente e fa sì che il conflitto assuma contorni sempre più internazionali.

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