Vite spezzate

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Fahrid!… Ma sì, è proprio lui. Lo riconosco, anche se di spalle. Dall’andatura incerta e barcollante, si direbbe che abbia bevuto. Lo raggiungo, lo chiamo, si gira e… mio Dio, come s’è ridotto dall’ultima volta! È ancora più curvo, fragile, deteriorato… e inoltre sporco. Ha l’aspetto di un sessantenne, mentre ancora non ha raggiunto i cinquanta. Fahrid mi guarda da sotto in su, tra le ciocche dei lunghi capelli in disordine: mi riconosce, accenna a un sorriso… Mi viene spontaneo abbracciarlo, baciarlo sulle guance smunte. È diretto, dice, alla mensa della Caritas, ma siccome c’è da attraversare una strada poco sicura, mi offro di accompagnarlo, e per sostenerlo gli afferro la destra: una mano gelida e ossuta. Presto mi rendo conto che devo adeguare la mia andatura alla sua. Anzi ogni pochi passi lui deve fermarsi per riprendere fiato. Intanto mi racconta la sua ultima disavventura. È tutto dolorante perché, sorpreso a rubare in un supermercato, ha ricevuto delle manganellate da un poliziotto. È giusto – ammette col suo accento francese che gli dà un’aria distinta malgrado tutto -, ho sbagliato. Sì, ma su quella schiena già così curva… Commosso per la triste sorte di un prossimo dotato, un tempo, di un fisico atletico, quasi non m’accorgo dei passanti che ci lanciano occhiate incuriosite. Giunti alla mensa, abbraccio Fahrid un’ultima volta, non senza avergli lasciato qualche moneta. Per qualche tempo mi accompagna la sensazione, nella mano, di quelle dita gelide… E mi torna in mente tutta l’odissea del mio povero amico algerino. Era stato un calciatore quando un fatale incidente ha cambiato la sua vita. Durante un alterco con un collega, non ricordo se della sua squadra o di quella avversaria, gli ha dato uno spintone e l’altro, battendo la testa, ci è rimasto secco. Dopo qualche anno di prigione, Fahrid s’è trovato ormai su una china discendente che lo ha portato in Italia, dove s’è ridotto a vivere per la strada. S’è abbrutito con l’alcol, l’unica cosa che lo rianima è quando all’ostello della Caritas può assistere a qualche partita di calcio alla tv… oppure sentirsi oggetto di qualche inaspettato gesto di solidarietà. In Algeria non tornerà più a meno di un miracolo. Quale sorte lo aspetta? Un raptus, l’errore di un istante, e ti ritrovi con tutta la vita cambiata, distrutta… Eri una persona per bene, ed oggi languisci in un carcere o trascini la tua esistenza ai margini della società perché non hai avuto la forza o le opportunità per riprenderti. Esposto alla cattiveria dei senza cuore o dipendente dalla pietà altrui. Capita, quando meno ce lo si aspetta, magari durante le occupazioni più banali, che ti vengono pensieri – come dire? – così particolari da chiederti cosa mai li abbia suscitati… Saranno passati due-tre giorni dal mio incontro con l’algerino, ed ecco che d’un tratto mi attraversa la mente una domanda che potrei esprimere in questi termini: come mai tu, Dio, purezza assoluta, hai voluto comprometterti con noi che siamo tutt’altro che puri? Sarà che certe verità non si finisce mai di apprenderle… Fatto sta che all’istante rivedo la scena di me mentre abbraccio e bacio Fahrid, il mio sporco e maleodorante Fahrid. Non so come spiegare, ma per me è stata una risposta a quella domanda. Finché c’è vita c’è speranza O ci dai la tangente o la pagherai cara!. E siccome quel poveraccio non aveva avuto di che pagare, gli emissari della mafia locale avevano fatto irruzione nella sua casa quella sera, mentre tutti erano riuniti attorno al tavolo per la cena. Lugubremente incappucciati, a colpi di machete, avevano giustiziato un onesto capofamiglia davanti alla moglie e ai dieci figli inorriditi. Pablo, il primogenito allora ventiseienne, aveva visto morire suo padre così sei anni prima. Era sopravvissuto assieme agli altri a quell’efferato episodio di malavita colombiana, ma a che prezzo! Quali traumi da trascinarsi dietro per tutta la vita come una ferita insanabile! Ma la catena di sciagure non era finita lì. Quel giorno, per esempio, se non avesse avuto la mente ancora sconvolta da quella tragedia, forse l’auto con cui si recava al lavoro non sarebbe finita in una scarpata, dopo un volo di venti metri. Pablo si salvò per un vero miracolo, ma per lungo tempo rimase tra la vita e la morte. E una volta riemerso dal coma, con la certezza di non poter più camminare, e quindi impossibilitato a provvedere ai suoi, quante volte si chiese se non sarebbe stato meglio per lui essere morto. Il giovane si dibatteva in questo tragico dilemma quando fu avvicinato da sedicenti amici che dopo avergli offerto una carrozzella gli prospettarono perfino un lavoro redditizio. Un lavoro molto particolare. Pablo, messo con le spalle al muro, accettò quella che gli sembrava una mano tesa… Accettò di trasportare in Italia una partita di droga nascosta nei tubi della sua carrozzella. Ma appena sceso dall’aereo, venne scoperto dai cani dell’antidroga, arrestato e interrogato per ottenere informazioni sui suoi complici. Pablo non conosceva la lingua, non capiva quanto gli si diceva. In terra straniera, senza appoggi, la sua disperazione aumentava. Spesso nel carcere di Padova, dove era stato internato, doveva lottare per scacciare propositi suicidi. Così lui ricorda quel primo periodo: Appena dopo l’arresto mi ero lasciato andare. Mi stordivo a forza di sigarette e di caffè, passando da trenta a settanta gocce di Contramal per dormire. Ero quasi tossico, finito. Ma grazie ad un sacerdote che mi ha saputo avvicinare, mi sono confessato e comunicato. Leggero come un uccello, ho cominciato a lasciare i farmaci e il resto; entro un mese avevo lasciato tutto. Da allora ho avuto una vita più serena. Ora ogni mattina bacio la ter- ra e ringrazio Dio perché sono vivo e comincio un nuovo giorno.. Quel sacerdote era un francescano missionario che pensò di metterlo in contatto con una religiosa legata ai Focolari, suor Maria Bonaria, attiva presso un carcere torinese nonostante i gravi acciacchi. Come già a tanti altri detenuti, anche a Pablo la religiosa cominciò a inviare Città nuova, la Parola di vita e piccoli aiuti in denaro. La fitta corrispondenza intavolata con lei ebbe un effetto benefico sul giovane colombiano. E continuò anche quando venne trasferito nel carcere di Ragusa. Era cambiato, aveva ritrovato Dio e la fiducia nella vita. Non solo, ma mettendosi al servizio dei suoi compagni, era diventato a sua volta un apostolo fra i detenuti. È quanto si coglie da questa lettera del maggio scorso: Carissima sorella, grazie di cuore per la lettera. Ho provato delle emozioni che non so spiegarle sentendo parlare di Dio Padre misericordioso… Per quanto mi riguarda, la vita del carcere mi ha fatto maturare, aprire il cervello, capire gli altri, capire che ho sbagliato… Quando fui arrestato non avrei mai immaginato che solo dopo un anno avrei iniziato a frequentare le elementari, poi un corso di artigianato, d’inglese e d’informatica. Ora mi trovo all’ultimo anno delle medie. Ringrazio la mia famiglia che mi è sempre stata vicina, ringrazio Dio per avermi salvato da quel brutto incidente. Tutto questo è una prova che il Signore mi ha dato. Ora sto lottando per andare avanti: finché c’è vita c’è speranza…. Scontata la sua pena, oggi Pablo è tornato di nuovo nella sua terra bella e tormentata, fra i suoi familiari. Le cicatrici restano, ma in quanto segni di una prova superata hanno ormai acquistato un altro significato. Come quelle sul corpo del Risorto.

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