Violenze di genere: ragazze se non siete felici scappate

Amare non è mai rinunciare a se stesse per rendere felice il partner. È responsabilità del tessuto sociale educare i giovani all’affettività, al rispetto e all’amore per relazioni sane
Foto Pexels

Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Interno, dall’inizio dell’anno al 21 novembre in Italia sono state uccise 106 donne, 82 delle quali in ambito familiare e affettivo; 53 sono state uccise dal partner o dall’ex partner. Una vera e propria strage che non siamo ancora pronti ad arginare poiché, oltre al necessario ma insufficiente ricorso alla repressione, la strada per cambiare rotta deve esser di tipo educativo, deve poter incidere sulla cultura delle relazioni, e questo processo è lento, come tutti i cambiamenti sociali.

E così, ancora una volta, dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin l’opinione pubblica si scandalizza ed invoca pene esemplari per l’assassino, inscena veglie e minuti di silenzio, lancia petizioni. Ancora una volta un odioso senso di fastidio attanaglia le coscienze ed agita gli animi; e anche stavolta i rituali socialmente codificati tenteranno di tenere a bada il senso di colpa collettivo.

Tempo qualche giorno e poi tutto il clamore rientrerà, e quest’ennesimo delitto andrà ad accrescere una ferita sociale che facciamo fatica a vedere e che tentiamo di nascondere nell’inconscio di massa. Ma, si sa, ciò che tentiamo di rimuovere dalla mente non va via, resta impresso nel profondo e si manifesta sotto forma di fobie, ansie, ossessioni, ed andrà a marcare ancora di più la tendenza atavica a colorare con pennellate di pessimismo questo pazzo mondo ipermoderno.

Fiaccolate, marce e talk-show riusciranno a calmare un po’ gli animi ma non saranno serviti, nemmeno stavolta, a restituire alla vita un fiore reciso dal bisogno di possesso di una mente troppo fragile ed immatura per poter avere una relazione di coppia. Giulia aveva poco più di vent’anni, come anche il suo assassino. Non ho conosciuto Giulia, come la maggior parte di noi, e quindi non potrò mai sapere che cosa le passasse per la testa quando ha deciso di incontrare il suo violentatore anche se la loro relazione era finita; forse un pensiero gentile animava il gesto di cortesia, forse un atto di generosità, o forse l’incapacità di dire di no. Potremmo fare mille illazioni ma il risultato non cambierebbe: Giulia potrebbe essere stata mossa da fragilità o da imprudenza, da immaturità o da plagio, ma è morta, è lei la vittima, e chi l’ha cancellata da questo mondo è il colpevole.

Potremmo anche disquisire sulla fragilità mentale dell’autore di reato e tentare di comprenderlo, potremmo chiederci perché un ragazzo arrivi a tanto, e sarebbe un’operazione utile perché capire cosa muove il male aiuta a prevenirlo. Ma non facciamo l’errore di confondere l’assassino con la vittima, a meno che non vogliamo ammettere che i colpevoli siamo noi, cioè che è tutto il tessuto sociale ad allevare personalità così fragili; a meno che non decidiamo che in quanto genitori ed educatori abbiamo fallito alla grande.

Non ritengo sia il tempo delle facili soluzioni, non il tempo della polarizzazione buoni-cattivi: nell’epoca della complessità i fattori del male sono molteplici. Certamente ha senso rintracciare, nella pluralità di concause, la fragilità di noi adulti, di noi genitori, insegnanti e educatori, ed è necessario chiederci quanto siamo diventati incapaci di essere abbastanza forti per contenere le angosce dei nostri giovani, per esserne una guida, per esserne l’argine in cui possa fluire il loro magma emotivo. Che la genitorialità sia in crisi è un’ovvietà, ma non è altrettanto scontato che gli adulti vogliano cambiare: ci è più facile rintracciare il capro espiatorio nel mostro di turno.

Fatte queste premesse, atteso cioè che un assassino è sempre colpevole e che il tessuto sociale inerme non è assolvibile, possiamo incamminarci in modo incerto nei meandri delle dinamiche di coppia caratterizzate da violenza maschile contro la donna. La dinamica di violenza ha un substrato culturale che ha spesso giustificato la supremazia del maschio sulla donna, in modo diretto (con violenza) o indiretto (con giustificazione della subalternità). Stereotipi di genere, machismo e commercializzazione del corpo femminile sono alcuni segni di questo modello. Accanto ad essi, il segnale più allarmante, a mio parere, è la tendenza di alcune donne ad assoggettarsi al maschio di turno, a cercarne il consenso, a tendere a dipenderne.

Alcune relazioni di coppia sono malate di codipendenza affettiva: un tipo di relazione in cui uno dei due partner, solitamente il maschio, è in una condizione di forte bisogno d’aiuto (elemento che diviene il collante e la condizione di stabilità e continuità del rapporto stesso) e l’altro, solitamente la donna, è predisposta a diventarne la “salvatrice”, una sorta di crocerossina che annulla sé stessa per l’altro. La codipendenza affettiva non è amore e, quasi sempre, genera grande dolore, spesso violenza, e a volte morte. Pertanto, una volta condannata con forza qualunque tipo di violenza, di controllo e di svalutazione della donna, abbiamo la responsabilità, in quanto genitori, di educare i nostri figli al rispetto delle loro partner ed all’accettazione della loro diversità, aiutandoli a rinunciare alla smania di possesso; ed abbiamo l’obbligo, forse ancora più impellente, di educare le nostre figlie a saper riconoscere i segnali di sottomissione, ed aiutarle ad uscire dal delirio di voler rendere felice il partner.

Amare non è mai rinunciare a se stesse per rendere felice il partner. Cara ragazza che leggerai, per amore di Giulia: non puoi vivere per rendere felice un uomo, ad essere felici si è in due; se anche tu non sei felice e libera di essere te stessa, scappa.

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