Viaggiando “il” paradiso (e il XX secolo)

Il Vangelo spingeva la maestra di Trento a migrare, spiritualmente ma anche fisicamente

Nel suo attraversamento del “secolo breve”, Chiara Lubich non ha solo effettuato un viaggio nel tempo, ma anche nello spazio. Tutta la sua azione, sin dagli inizi, ha avuto in sé l’idea dell’irradiazione evangelizzatrice, frutto di un radicamento fortemente scritturistico del suo carisma. Così da Trento, assai rapidamente, volle portare l’Ideale dell’unità in altre città e paesi del Trentino, da Bolzano a Rovereto, alle valli di Non e di Primiero.

Ben presto, però, già nel 1947, i suoi orizzonti si ampliarono a Roma e all’Italia: Firenze, Milano, Venezia, ma anche Roccasecca e Anagni, la Sardegna e, appena più tardi, la Sicilia. Senza rallentare l’andatura, ancora negli anni ’40, le ragazze e i ragazzi del Movimento trentino sciamarono all’estero, a cominciare da Innsbruck, nella vicina Austria. Negli anni ’50 furono diversi i Paesi europei a conoscere la diffusione della spiritualità di comunione, dalla Spagna e il Portogallo alla Gran Bretagna, all’Oltrecortina comunista. E già nel 1958 cominciarono i viaggi dei focolarini fuori dall’Europa, spesso chiamati da missionari che avevano cominciato a spargere la voce di una “nuova vita evangelica” nei loro Paesi di missione. Il primo viaggio fu quello di Marco Tecilla, Lia Brunet e Fiore Ungaro in Sud America.

Mi si permetta un’analogia attualissima: l’Ideale dell’unità si è sparso nel mondo in modo “virale”, come un virus che contagia alcuni lasciando indifferenti altri, seguendo itinerari assai improbabili, secondo un metodo di trasmissione che si serviva di “contagiati” entusiasti e altamente apostolici. Già da queste brevi note, può apparire allora chiaro come il “viaggio” fisico fosse pratica naturale nei Focolari di allora: la stessa intuizione di quel che sarebbe successo qualche anno più tardi, Silvia Lubich l’ebbe non a Trento ma a Loreto, aveva 19 anni, nel corso di un viaggio-pellegrinaggio dell’Azione Cattolica. Per giunta, l’illuminazione avvenne nella “casetta”, che si ritiene appartenuta alla Famiglia di Nazareth, anch’essa “viaggiante” tra la Terra Santa e le Marche.

1998: Chiara Lubich in visita alla tomba di Teilhard de Chardin a Poughkeepsie (Usa), vicino alla Mariapoli Luminosa.
1998: Chiara Lubich in visita alla tomba di Teilhard de Chardin a Poughkeepsie (Usa), vicino alla Mariapoli Luminosa.

Ma c’è di più. Il viaggio non è un optional nella “cassetta di attrezzi” del carisma donato alla Lubich. Lo si può costatare scorrendo le pagine del periodo mistico della maestra di Trento, l’estate del 1949, l’ormai noto Paradiso ’49. Ebbene, molteplici sono le espressioni che riportano al viaggio, soprattutto i verbi: passare, camminare, discendere, salire, circolare, distaccarsi… Ancor più, la raccolta stessa di quegli scritti è un racconto di viaggio, seppur non avvenuto su questa terra.

Tra tutte, c’è un’espressione originale della Lubich che va sottolineata: «Viaggiando il paradiso». Non “in” paradiso, ma “il” paradiso. A significare che il paradiso “passeggiato” non è tanto un luogo da raggiungere e da attraversare, ma da vivere viaggiando. Il paradiso è un viaggio. Lì, secondo la Lubich, non c’è stasi, si passa «di cielo in cielo», si vivono realtà mutevoli e mutanti, sempre appaganti, si “fa un’esperienza di paradiso” nella misura in cui si accettano le regole del viaggio e le sue esigenze di continuo cambiamento. Nella continua scoperta di nuove prospettive e nuove visioni. Si vive del mistero che si svela passo dopo passo, cielo dopo cielo, realtà dopo realtà, senza coltivare rimpianto per quanto lasciato, perché contenuto già nel passo successivo, nella continua sete di nuovi lidi. Sentimenti, d’altronde, che ogni vero viaggiatore conosce bene.

Ho avuto la fortuna di accompagnare la Lubich in tutti o quasi i suoi viaggi dal 1995 al 2004, cioè gli ultimi 10 anni della sua vita pubblica. Viaggiando con lei, sugli stessi aerei e le stesse auto, cercando di guardare la realtà immedesimandomi in lei e nel suo sguardo, mi sembra di aver capito perché negli scritti del 1949 il viaggio è il “modo” stesso di vivere un’esperienza veramente cristiana. Chiara Lubich, infatti, era sempre in movimento, in un atteggiamento “verso-qualcuno” o “verso-qualcosa”, mai soddisfatta del traguardo raggiunto, anche se ogni istante per lei era tutto, il solo che esistesse. Il Vangelo, mi insegnava la Lubich, sta tutto qui: «Penetrare nella più alta contemplazione», ma immersi nella realtà terrena, «come s’inzuppa un frusto di pane nel vino». Un continuo viaggio, un continuo “spostamento” tra lassù e quaggiù.

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