Via Padova, povertà e degrado

Non si può comprendere cosa stia succedendo in questo quartiere se non si entra in quelle vie strette e degradate, se non si cerca di capire le vite spericolate di tanti ragazzi immigrati con un sogno mancato.
immigrati

Ahmed Abdel Aziz el Saye ha una famiglia che lo piange e si dispera, amici increduli che si domandano come si possa finire la propria vita lungo un marciapiede di città nel tardo pomeriggio di un sabato qualunque a soli diciannove anni. Il ragazzo, di origine egiziana, è stato ucciso in via Padova a Milano da altri ragazzi, probabilmente sudamericani, della sua stessa età, dopo una lite sfociata per futili motivi, forse per una parola di troppo, forse sotto l’effetto dell’alcool. L’assassino ha trovato facile fuga nel dedalo di vie che si affacciano su via Padova, mentre la rabbia di amici e connazionali ha preso la forma di una guerriglia urbana combattuta via per via. Oltre quattro ore di rivolta e di devastazione che hanno trasformato uno dei quartieri periferici a più alta concentrazione di immigrati in una vera e propria banlieue francese. Fin qui i fatti.

 

Poi è cominciato il dibattito di rito: qualcuno ha chiesto rastrellamenti casa per casa, qualcuno ha additato la grande concentrazione di stranieri nella zona, qualcuno ha ravvisato l’ombra lunga delle gang di ragazzi stranieri che in alcune parti della città cominciano ad organizzarsi. Ma non si potrà mai capire cosa sta succedendo in questo quartiere se non si avvicina lo sguardo, se non si entra in quelle strette e degradate vie, se non si cerca di capire le vite spericolate di tanti ragazzi immigrati che sono arrivati con un sogno e hanno trovato lungo il loro cammino solo sconfitte ed emarginazione.

 

Via Padova è una di quelle vie che i tassisti conoscono bene e lungo le quali si rifiutano di transitare dopo una certa ora della notte. Zona multietnica per eccellenza, quasi una piccola Belleville cisalpina, ha un patrimonio abitativo di tipo popolare, organizzato secondo il tradizionale schema della casa a ringhiera. Sui ballatoi delle vecchie case di immigrazione, la storia dell’avvicendarsi di successive ondate migratorie si legge come una stratigrafia: ai piani bassi è rimasta qualche famiglia cinese, che il più delle volte ha convertito il proprio laboratorio in appartamento, salendo si incontrano latinoamericani, egiziani, filippini e poi, arroccati ai piani alti, gli ultimi vecchi residenti italiani rimasti, spesso essi stessi immigrati da altre regioni d’Italia.

 

La presenza di famiglie immigrate è cresciuta nel tempo a ritmo intenso, la disponibilità di alloggi è elevata, se paragonata ad altre zone della città, i prezzi sono relativamente più bassi della media della città. Il bisogno di trovare una casa induce molti immigrati ad accettare di non avere un regolare contratto di affitto o di coabitare in sovrannumero in piccoli appartamenti.

 

Per molti anni il quartiere ha trovato un suo equilibrio. Racconta Sumaya Abdel Qader che abita nel quartiere e partecipa alle attività dell’associazione Amici del Parco Trotter come «via Padova sia generalmente una via tranquilla per chi vi abita. Passeggio spesso con due piccole bambine nella via, frequento i bar, negozi, ristoranti. Con ciò non dico che non ci sono problemi. Quelli ci sono purtroppo, causa la lontananza delle istituzioni e alle sbagliate politiche attuate, o meglio dire non attuate». Per molti anni l’azione quotidiana e intensa delle numerose parrocchie, delle associazioni, delle scuole di frontiera che qui hanno fatto della presenza di bambini immigrati da tutto il mondo un elemento di arricchimento, ha impedito che il degrado si trasformasse in conflitto e la marginalità in violenza. Senza le mense dei frati, l’impegno degli insegnanti, l’azione dei preti di strada, il coraggio dei volontari della vicina Casa della Carità di Don Colmegna questa città sarebbe già esplosa – dicono in forme varie alcuni dei commentatori più autorevoli.

 

I fatti di questi giorni segnalano un cambiamento di scala e rivelano un clima che può diventare pericoloso. Non può bastare il lavoro delle forze dell’ordine, dei vigili urbani, dei militari, non può bastare una politica indistintamente repressiva, è urgente un intervento pubblico sul quartiere a tutto campo. Tre direzioni appaiono parimenti importanti. In primo luogo, è necessario un più capillare controllo di tutte quelle forme di illegalità che alimentano il senso di insicurezza e di precarietà (spaccio, risse frequenti, prostituzione). Questi fenomeni spesso si intrecciano anche con quel senso di spaesamento, di sfiducia e di incertezza che coglie molti residenti del quartiere.

 

In secondo luogo, è cruciale intervenire sulle forme di illegalità legate al campo abitativo: affitti privi di contratto, speculazioni intorno ai “posti letto”, sovraffollamento degli alloggi, utilizzo a scopo abitativo di appartamenti fuori norma. In particolare, mediante strumenti in grado di operare pressioni sul sistema della proprietà, affinché si adoperi per ripristinare condizioni di sicurezza e legalità entro gli edifici della zona.

 

In terzo luogo, bisogna investire su politiche di integrazione dei giovani immigrati, per sostenerli nel loro percorso scolastico, nell’ingresso del mondo del lavoro, nella socializzazione con i coetanei italiani. Solo il pieno riconoscimento della realtà delle seconde generazioni, quei ragazzi nati in Italia o arrivati in giovane età e che ci ostiniamo a considerare stranieri, potrà costruire per il futuro le condizioni di una convivenza positiva e al riparo da violenze e rivolte.

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